Innernet: Journey into Awareness
and Anima Mundi

11
Feb
2009
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Consapevolezza delle emozioni e dipendenza da Internet

CyberPsychology & Behavior ha presentato uno studio dal titolo (tradotto) “Alexitimia e la sua relazione con le esperienze dissociative e la dipendenza da Internet in un campione non clinico

L’alexitimia è la difficoltà a comprendere, a differenziare e comunicare gli stati emozionali. Non è considerata una condizione clinica, ma un tratto della personalità, condiviso da circa il 7% della popolazione, con una leggera prevalenza di soggetti maschili. Il termine è relativamente recente, essendo stato coniato da Peter Sifneos nel 1973. Questi soggetti di solito hanno una vita fantasiosa carente, poca intuizione e una scarsa capacità introspettiva. Una delle caratteristiche predominanti a livello relazionale è un’altrettanto scarsa capacità di rapportarsi emotivamente con il prossimo in quanto incapaci di vedere in sé e negli altri le sfumature emozionali al di là di quelle grossolane quali “benessere” o “malessere”.

Come spesso succede nel campo della psicologia e della psichiatria, le interpretazioni sulle cause della alexitimia si dividono in chi ritiene che i fattori genetici e neurochimici siano predominanti e in chi invece ritiene che le cause siano da trovarsi nei fattori psicologici (ad esempio, esperienze emotive troppo intense che hanno portato a difendersi da queste, oppure una mancanza di riconoscimento delle emozioni del figlio/a da parte dei genitori).

Un’altra caratteristica degli alexitimici è l’attenuata capacità di controllo degli impulsi, tanto che alcuni scaricano la tensione degli stati interiori sgradevoli con atti compulsivi quali l’abuso di cibo o di sostanze oppure tramite comportamenti sessuali distorti.

Gli autori dello studio, Domenico De Berardis, Alessandro D’Albenzio, Francesco Gambi, Gianna Sepede, Alessandro Valchera, Chiara M. Conti, Mario Fulcheri, Marilde Cavuto, Carla Ortolani, Rosa Maria Salerno, Nicola Serroni e Filippo Maria Ferro, hanno lavorato su un campione di 312 studenti, identificando i fattori associati con i rischi di sviluppare la dipendenza da Internet. E’ stato rilevato che gli alexitimici avevano più esperienze dissociative, una minore autostima, più disturbi di tipo ossessivo-compulsivo e un maggiore potenziale di sviluppare la dipendenza da Internet. In particolare, lo studio ha rilevato che la difficoltà nell’identificare le emozioni è associata in modo significativo ad un rischio più elevato di sviluppare la dipendenza da Internet. Continua su Indranet.

8
Feb
2009
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Esperienze prossime alla morte

near death.jpgLa maggior parte degli individui che vive un’esperienza di quasi morte ha ancora la sensazione di stare trattenendo almeno qualcosa del proprio essenziale io personale. Questo io personale è di solito il principale osservatore esterno della scena. Uno studio delle dinamiche e della neurofisiologia delle esperienze prossime alla morte.

Esperienze di “quasi morte” e atteggiamenti di “morte lontana”

Tutte le scelte sono influenzate dal modo in cui la personalità considera il suo destino, e il corpo la sua morte. In ultima analisi, è il nostro concetto di morte che decide o risponde a tutte le domande che la vita ci mette davanti… Da qui deriva anche la necessità di prepararci a essa.
Dag Hammarskjold

Il nostro concetto di morte influenza il modo in cui viviamo? Se Hammarskjold avesse ragione, sarebbe meglio che ognuno di noi elaborasse una sua valida idea sulla morte, preparandosi a essa senza indugiare sui suoi aspetti morbosi. Più facile a dirsi che a farsi.

Un secolo fa, Albert Heim ha riassunto nel seguente modo i racconti di trenta persone che improvvisamente si sono trovate davanti alla morte. La loro ordalia venne provocata da lunghe cadute dalle cime alpine. Dopo essersi trovati a un passo dalla morte, questi superstiti hanno raccontato di aver provato, in quel momento, “un senso di grave tranquillità, un’accettazione profonda e uno stato prevalente di acutezza mentale e di senso di sicurezza. L’attività mentale divenne enorme, cento più volte più veloce o intensa. Le relazioni tra gli eventi e le loro probabili conseguenze venivano viste con grande chiarezza.

Il tempo si espanse grandemente. L’individuo non era confuso, ma agiva con la velocità di un fulmine e dopo un’accurata valutazione della situazione. In molti casi, le persone rividero in un lampo tutto il proprio passato. Alla fine, al momento della caduta, si udì spesso una musica bellissima e si ebbe la sensazione di precipitare in un magnifico paradiso blu, con nuvolette rosate (nota 1)”. Read More

2
Feb
2009
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Il bambino incarnato, la storia del Dalai Lama

dalai lama bimbo.jpgCon gli auguri di pronta guarigione per il ricovero del Dalai Lama,  presentiamo la storia della sua incarnazione. I tibetani sono affascinati dalle storie dei bambini incarnati, come si può vedere dalla letteratura tibetana e della tradizione orale. Il primo bambino incarnato fu il principe Siddharta, il Buddha storico. Tra tutte le storie di incarnazioni, le più affascinanti e interessanti sono quelle che riguardano i Dalai Lama.

Il concetto della reincarnazione del creatore e della rinascita delle sue creature è molto antico. Sebbene la reincarnazione e la rinascita condividono lo stesso principio del ritorno all’esistenza, esse differiscono per quanto riguarda i livelli del loro essere, lo scopo e le funzioni.

La teologia hindu parla delle dieci incarnazioni del Dio (Vishnu) come degli operatori dello schema divino per riindirizzare quelle creature che tendono ad allontanarsi ulteriormente dal loro creatore. Le incarnazioni, quindi, provengono dalla fonte più elevata, il Dio, le cui creature non possiedono tale capacità.

Per quanto riguarda la tradizione buddista, le incarnazioni hanno origine dalle Menti Illuminate che, a loro volta, vengono dal comune intelletto umano. Come dice il proverbio: “Il burro nasce dal latte, i Buddha dagli esseri senzienti”. Le incarnazioni sono il risultato dell’elevazione della consapevolezza dell’uomo e della padronanza delle facoltà spirituali. Si crede che ogni uomo o donna incarnati siano predestinati ad avere un ruolo nel destino spirituale dell’umanità.

La storia delle incarnazioni in Tibet è parte essenziale di quello che la tradizione descrive come uno schema cosmico di Menti Illuminate. Dal loro stato psicologico supremo provengono manifestazioni spirituali e incarnazioni umane che mettono in moto una tale infinita fissione. Read More

28
Jan
2009
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Increspature sulla superficie dell’Essere, un’intervista con Eckhart Tolle

eckhart tolle3.jpgEckhart Tolle è emerso come uno degli insegnanti spirituali più originali degli anni recenti. Il suo insegnamento non fa parte di alcuna religione o tradizione, ma nello stesso tempo non esclude nessun percorso. Il suo messaggio enfatizza l’essere nel momento. E’ autore del best seller “Il Potere di Adesso”, qui intervistato da Andrew Cohen.

Andrew Cohen: Eckhart, com’è la tua vita? Ho sentito parlare di te un po’ come di un recluso che trascorre molto tempo in solitudine. È vero?

Eckhart Tolle: Questo era vero in passato, prima che fosse pubblicato il mio libro Il potere di adesso.. Per molti anni sono stato un recluso. Dopo l’uscita del libro, però, la mia vita è cambiata drasticamente. Ora insegno e viaggio molto. E le persone che mi conoscevano prima dicono: “È sorprendente. Eri un eremita ed ora sei nel mezzo della società”. Tuttavia, sento che niente è cambiato dentro di me. Mi sento, esattamente, lo stesso di prima. C’è ancora un senso di pace continuo, e mi sono arreso al fatto che a livello esterno c’è stato un cambiamento totale. Così, in realtà, non è più vero che sono un eremita.

Ora sono proprio l’opposto di un eremita. Può darsi che questo sia un ciclo. Può pure darsi che ad un certo punto questo finisca e che io ad essere un eremita. Al momento, però, sono arreso al fatto che sono quasi costantemente in uno stato interattivo. Ogni tanto mi prendo del tempo per stare da solo. Tra un insegnamento e l’altro, è necessario.

Andrew Cohen: Perché hai bisogno di stare da solo e cosa accade in quei momenti di solitudine?

Eckhart Tolle: Quando sono con la gente sono un maestro spirituale. Questa è la funzione, ma non è la mia identità. Dal momento che sono da solo, la mia gioia più profonda è nell’essere nessuno, nel lasciare andare la funzione dell’insegnante. È una funzione temporanea. Diciamo che incontro un gruppo di persone. Nel momento in cui se ne vanno, non sono più un maestro spirituale. Non c’è più alcun senso di un’identità esteriore. Semplicemente, entro in modo più profondo nella quiete. Il luogo che amo di più è la quiete. Non che la quiete vada perduta quando parlo o quando insegno, dato che le parole sorgono dalla quiete. Nel momento in cui le persone se ne vanno, però, quello che rimane è solo la quiete. E la amo cosi tanto. Read More

20
Jan
2009
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Ego e natura essenziale

Faisal.jpgIn questa intervista di Bo Heimann, Faisal Muqaddam ci parla dell’ego, dell’essenza e della loro relazione. “C’è un essere, un essere individuale, che sei tu nella tua unicità, irripetibile e che non andrà mai perduto. Quando ti illumini questo essere non si dissolve. Si dissolvono le limitazioni della mente, le limitazioni della falsa personalità. Ma la personalità essenziale rimane e diventa sempre più illuminata e più matura.”

Bo: Nei tuoi insegnamenti parli della necessità di distinguere la falsa personalità (o identità dell’ego) da quella che chiami ‘natura essenziale’. Puoi spiegare per favore cosa sia la natura essenziale?

Faisal: La natura essenziale è una personalità vera. È fatta di molte belle qualità, come l’amore, la gioia, la chiarezza, il calore, l’entusiasmo, la libertà. È un essere. E questo essere è fatto di elementi molto preziosi, che chiamiamo ‘essenza’. Queste qualità hanno consistenza, hanno colore. Non sono energia, bensì sono la sorgente dell’energia. Sono sostanze reali, palpabili, dotate di più consistenza, di più sostanza.

Bo: E l’essenza è qualcosa che ci accompagna dalla nascita?

Faisal: L’essenza è qualcosa che ci accompagna dalla nascita, è la nostra vera natura. Quando si parla di vera natura, si parla in genere di quella natura fondamentale così semplice e indifferenziata da essere la semplicità stessa, un po’ come la natura illuminata, che è semplicissima. Per me la natura essenziale ha il potenziale di differenziarsi in moltissime qualità: ma in genere nella spiritualità si parla della natura di Buddha, della vera natura, senza soffermarsi su come possa differenziarsi.

Vedi, la natura fondamentale è come l’oceano, che contiene pesci, contiene coralli. Questa natura fondamentale si differenzia in molte qualità e queste qualità sono sostanze. Alcune di queste sostanze sono molto delicate, altre molto dense, altre ancora sono dure come roccia. E il veggente ne percepisce anche i colori. Vede che hanno colori diversi. Alcune splendono come argento, altre come oro, altre sono come ambra, o come acqua, o come diamanti, o come perle. Queste qualità della pura natura non sono al cento percento assolute, bensì sono una differenziazione della natura assoluta.

Ciascuna di esse ci dà qualcosa. Questo è molto importante. Una qualità ci dà la capacità di sentirci radicati, solidi, fiduciosi, un’altra qualità ci dà l’energia della vitalità, della forza, della giocosiatà, un’altra ancora ci dà la tenerezza; ci sono molte qualità. Read More

13
Jan
2009
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Illuminazione istantanea o graduale?

big_bang.jpgL’illuminazione è un’esperienza singolarmente intensa, che rivela a una persona il suo posto nello schema delle cose. Essa è, molto spesso, un’esperienza definitiva grazie alla quale chi esperimenta non dubiterà mai più della propria relazione con se stesso, gli altri, il mondo e qualunque cosa si ritenga esistere al di là di quest’ultimo. L’illuminazione non è settaria: è rinvenibile nel buddismo, nel cristianesimo, nell’induismo, nell’Islam e in molte altre tradizioni religiose.

Il tema di oggi è intitolato: “Cosa è meglio: l’illuminazione graduale o quella istantanea?”. Per cominciare, voglio affermare che nessuna è meglio dell’altra, perché entrambe si basano su concezioni metafisiche del mondo e della natura umana molto diverse. Quindi, è impossibile classificarle come “superiore” o “inferiore”. Inoltre, devo specificare che, sebbene l’illuminazione istantanea è associata alle scuole Soto (in cinese: Tso-Tsung), Rinzai (Lin-Chi) e Zen (Ch’an), questo articolo tratta solo del significato attribuitole dalla scuola Rinzai, che non coincide esattamente con quello della Soto.

Prima di paragonare tra loro l’illuminazione graduale e quella istantanea, devo darvi una definizione dell’esperienza minima di illuminazione (kensho o satori). Questa definizione non è l’unica possibile e altre possono competere con essa, soprattutto perché è molto influenzata dalla tradizione Rinzai.

L’esperienza dell’illuminazione è un’esperienza singolarmente intensa, che rivela a una persona il suo posto nello schema delle cose. Essa è, molto spesso, un’esperienza definitiva grazie alla quale colui (o colei) che esperimenta non dubiterà mai più della propria relazione con se stesso/a, gli altri, il mondo e qualunque cosa si ritenga esistere al di là di quest’ultimo.

Tale esperienza conferisce un grande potere ed è enormemente convalidante; inoltre, è diversa da tutte le altre esperienze possibili. Un aspetto importante di essa è il suo essere non-settaria. Vale a dire, questa esperienza è rinvenibile nel buddismo, nel cristianesimo, nell’induismo, nell’Islam e in molte altre tradizioni religiose. Ogni tradizione può imporle la sua interpretazione dogmatica, ma l’esperienza iniziale, dal punto di vista psicologico, sembra trans-culturale. Per finire, questa esperienza può verificarsi in molte circostanze diverse, ma nella maggior parte dei casi accade come conseguenza di qualche grave crisi intellettuale, emotiva o fisica. Read More

6
Jan
2009
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Resistendo a Facebook

Una delle ragioni del successo di Facebook è che si suppone che gli amici siano tali. Generalmente nei social network e nei siti di incontri si contattano persone che sono estranee alla narrativa della nostra vita reale. Anche se i contatti che avvengono solamente online possono portare ad interessanti connessioni, nel più dei casi tali “amici” vanno e vengono, la relazione non va molto in profondità e non scende in un luogo autentico e quasi “organico”.

Quindi Facebook è arrivato in soccorso come modo per connettersi con persone che conosciamo e con coloro che conoscevamo nel passato ma con cui abbiamo perso i contatti. Anche se il gioco degli inviti e degli amici degli amici si espande e si finisce con dei contatti che si conosce a malapena, con forse una buona metà delle persone ho condiviso importanti parti della vita, parti della nostra storia che hanno dato forma alle nostre esistenze attuali.

Ma ho delle resistenze nel partecipare al gioco di Facebook con questi, proprio per il motivo che alcuni di loro sono veri amici ed abbiamo avuto un’importante connessione. Quindi fin’ora non ho cercato gli amici da aggiungere a Facebook e apro raramente il sito, non molto più che accettare le richieste che sono pervenute.

Poiché la maggior parte delle persone che richiedono l’amicizia sanno che utilizzo Internet da parecchi anni e che ero un editore di libri di informatica, a volte mi sento di dire loro che entro raramente in Facebook e che non li sto ignorando deliberatamente. In realtà la situazione pone un conflitto interiore, una sorta di doppio vincolo: le persone sono lì nel sito, non è carino ignorarle, ma allo stesso momento non voglio coinvolgermi troppo in un ulteriore giocattolo in rete.

Naturalmente possiamo affermare che per ogni livello di comunicazione vi sono diverse aree e che possiamo scegliere il medium più approopriato in accordo alla profondità e al livello di intimità che desideriamo. Con le persone con cui ho un rapporto intimo posso scegliere anche altri modi per comunicare. Il medium può variare grandemente dalle telefonate agli incontri personali e ai contatti di corpo e mente a diversi livelli, dalle strette di mano al fare l’amore.

Ma Facebook, come molte altre applicazioni sul web, tende ad espandere la sua portata e includere un numero maggiore di aspetti della nostra vita, e può anche facilmente diventare una dipendenza. Continua su Indranet.

31
Dec
2008
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Trasformazione emozionale e trascendenza

mark epstein.gifNella cultura psicologica si parla di espressione delle emozioni oppure della loro manifestazione, comunque la direzione è verso il disfarsene. L’idea del conoscere semplicemente l’emozione avviene piuttosto raramente. Senza agire le emozioni, ma neanche reprimendole, abbiamo l’occasione di conoscere le identificazioni che ne sono alla base.

Ricordo che non molti anni fa stavo seduto nell’ufficio del mio terapista e gli raccontavo la discussione avuta con una persona a me cara. Oggi i particolari mi sfuggono, ma avevo fatto qualcosa che aveva addolorato la mia amica, la quale si era arrabbiata in un modo che mi sembrava sproporzionato e ingiustificato. Ricordo che mentre raccontavo i fatti, mi sentivo frustrato e turbato.

“Tutto quello che posso fare è amarla di più in quei momenti”, insistevo con una certa mestezza, facendo ricorso agli anni di pratica meditativa e alla sincerità dei miei sentimenti più profondi.

“Questo non funzionerà mai”, tagliò corto il terapista, e fu come venire colpiti dal bastone di un maestro zen. Mi guardò con una certa aria canzonatoria, quasi fosse meravigliato dalla mia stupidità. “Cosa c’è di sbagliato nell’essere arrabbiati?”, chiese.

Questo scambio di battute mi è rimasto impresso per anni, perché, in un certo senso, cristallizza le difficoltà che ci troviamo di fronte quando cerchiamo di integrare l’approccio psicologico occidentale con quello del buddismo. Il buddismo ci dà un messaggio ambivalente sulle emozioni: da un lato dice che dobbiamo sforzarci di eliminarle, dall’altro insegna ad accettare tutto ciò che sorge. C’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati? Possiamo liberarci di questo sentimento? Cosa vuol dire venirne a capo? Nel mio lavoro di terapista, devo affrontare in continuazione queste domande. Read More

23
Dec
2008
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Dio nel cervello

FL Mershberger (1990). Una intepretazione della Creazione di Michelangelo basata sulla neuroanatomia.Le teorie di Newberg, spiegata nei dettagli in “Dio nel cervello”, sono numerose: spaziano dal perché il nostro innato cervello spirituale è sopravvissuto all’evoluzione, fino alla speculazione sulle radici biologiche del fondamentalismo religioso. L’esperienza mistica in accordo al suo pensiero può essere considerata una normale funzione dell’attività cerebrale.

Il Dott. Andrew Newberg è, come lui stesso afferma ridendo, “bloccato” tra la spiritualità e la scienza. Fin dalla pubblicazione del suo libro, Dio nel cervello (Why God Won’t Go Away in edizione originale), il professore dell’Università della Pennsylvania ha tenuto conferenze sulla scienza agli uomini di religione, e agli scienziati sugli uomini di religione. Si è fatto ammiratori e critici su entrambi i versanti del dibattito scientifico-religioso, ed è in grado di parlare facilmente a tutti e due, perché nemmeno lui è sicuro di ciò in cui crede.

Durante i trentacinque anni della sua giovane vita ha valutato le alternative a sua disposizione: dalla spiritualità della sua famiglia Ebrea riformista, alla scienza che, per il suo splendore, lo ha spinto a entrare nel mondo accademico. La sua disponibilità a entrambe – la scienza e la spiritualità – lo collocano nel numero sempre maggiore di pensatori che stanno avvicinando questi mondi distinti.

Oltre ai grandi interrogativi esistenziali, Newberg possiede solide convinzioni, la più salda delle quali al momento è la certezza di aver scoperto qualcosa di enormi proporzioni: le ragioni biologiche per cui gli esseri umani sono predisposti al pensiero religioso, per cui i nostri cervelli “si rivolgono a Dio”. Egli ha fiducia anche nel suo metodo, che fonde il rispetto per ciò che la scienza può rivelarci sul mondo con la comprensione che essa “non può accompagnarti fino in fondo alla strada”.

Dieci anni fa, questo atteggiamento equilibrato condusse Newberg a stringere una relazione di lavoro con un certo Eugene d’Aquili, una specie di antropologo che aveva studiato l’attività del cervello dei partecipanti a rituali religiosi. I due cominciarono a chiedersi come avrebbero potuto ottenere dei dati quantificabili relativi all’esperienza spirituale. La loro risposta fu di riprendere delle immagini dei cervelli dei meditatori del buddismo tibetano e delle monache francescane nel culmine dell’estasi spirituale. Read More