Risveglio al Prozac
“Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di psicoterapia, Leslie era ancora infelice. Incapace di controllare la frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si chiudeva in sé piena di rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si metteva a letto. Quando il suo terapista le consigliò di prendere l’antidepressivo Prozac, si sentì offesa, pensando che una simile azione sarebbe andata contro i suoi precetti buddisti.”
Mark Epstein è praticante buddista, psichiatra e autore di diversi libri sul buddismo e la psicologia. In questo articolo costruisce un ponte tra i mondi generalmente distanti della meditazione e della pratica psichiatrica.
I farmaci e la pratica
Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di psicoterapia, Leslie era ancora infelice. A chi la conosceva superficialmente non appariva depressa, ma per gli amici intimi e le persone che amava aveva un carattere difficilissimo. Soggetta a minacciosi attacchi d’ira quando si sentiva anche minimamente trascurata, Leslie si era alienata la maggior parte delle persone che le erano state vicine durante la vita. Incapace di controllare la frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si chiudeva in sé piena di rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si metteva a letto. Quando il suo terapista le consigliò di prendere l’antidepressivo Prozac, si sentì offesa, pensando che una simile azione sarebbe andata contro i suoi precetti buddisti.
Negli antichi testi buddisti si racconta come il re di Kosala dicesse al Buddha che, a differenza dei seguaci delle altre religioni, dall’aspetto macilento, rude, pallido ed emaciato, i discepoli del Buddha sembravano “gioiosi ed esultanti, giubilanti ed euforici, felici della vita spirituale, dalle facoltà soddisfatte, liberi dall’ansia, sereni, tranquilli e con la mente di una gazzella”. L’idea che gli insegnamenti del Buddha debbano provocare uno stato mentale altrettanto piacevole è ancora molto diffusa negli ambienti buddisti di oggi.
Per molte persone, la meditazione buddista ha tutto ciò che occorre per essere una psicoterapia alternativa, compresa l’aspettativa che una pratica intensa deve riuscire a trasformare qualsiasi esperienza emotiva sgradevole. Ma la verità non detta è che molti studenti avanzati del dharma, come Leslie, hanno scoperto che sentimenti inabilitanti di depressione, agitazione o ansia resistono anche a un lungo periodo di pratica buddista. Questa angoscia è spesso aggravata da un senso di colpa riguardo la persistenza della depressione, oltre che dalla sensazione di aver “fallito” come studenti del dharma.
Tale situazione è analoga a quella di un seguace della medicina naturale che – nonostante i cibi naturali, gli esercizi, la meditazione, le erbe e le vitamine – si ammalasse di cancro. Come ha detto Treya Wilber in un articolo scritto prima della sua scomparsa prematura dovuta a un cancro al seno, l’idea che dovremmo assumerci la responsabilità di tutte le nostre malattie ha i suoi limiti.
«Perché hai scelto di darti il cancro?» è la domanda che molti amici “New Age” le rivolsero, provocando in lei sensi di colpa e recriminazioni simili a quelli che spesso provano gli studenti del dharma malati di depressione. Amici più sensibili le si avvicinarono con la domanda leggermente meno sgradevole: «In che modo hai intenzione di usare questo cancro?». Una domanda che, secondo le sue parole, la fece sentire “investita di potere, sostenuta e sfidata in modo positivo”.
In presenza di una malattia fisica, forse, è un po’ più facile realizzare questo cambiamento; con una malattia mentale, l’identificazione è sovente così grande che è estremamente difficile riuscire a creare un distacco, vedendola come un sintomo di una malattia curabile anziché come un’evocazione della condizione umana.
Naturalmente, la Prima Nobile Verità sostiene l’universalità della dukkha, della sofferenza o, per usare una traduzione migliore, dell’inappagamento universale. La disperazione della depressione, il dolore dell’ansia o il disagio della disforia (depressione leggera) sono semplici manifestazioni della dukkha, o facciamo torto a noi stessi e al dharma aspettandoci che qualsiasi tipo di dolore mentale si dissolva una volta divenuto oggetto di consapevolezza meditativa?
La grande forza del buddismo sta nell’affermazione secondo cui tutti i contenuti della mente nevrotica possono trasformarsi in cibo per l’illuminazione, e la liberazione della mente è possibile senza la risoluzione di tutte le sue nevrosi. Questo punto di vista provoca un sollievo immediato in molti occidentali, che così si sentono accettati dai loro insegnanti del dharma per ciò che sono. Inoltre, l’accettazione e l’amore incondizionati provocano una gratitudine e un apprezzamento profondi.
Questo è un contributo inestimabile della psicologia buddista: la capacità di trasformare quello che spesso è un punto morto nella psicoterapia, cioè quando il nucleo nevrotico è stato portato alla luce, ma non si riesce a fare nulla per sradicarlo.
La situazione di Eden esemplifica tutto ciò. Scrittrice, dall’età di ventinove anni ella cominciò a provare sensazioni opprimenti di vuoto o vacuità. Avendo già alle spalle dieci anni di psicoterapia intensiva, aveva compreso che la sua sensazione di intorpedimento e i suoi bisogni provengono da carenze emozionali della sua giovinezza. Suo padre, uno scienziato freddo e distaccato, evitava i figli ritirandosi nel rarefatto mondo intellettuale della ricerca scientifica, mentre la madre era molto amorevole e protettiva, ma indiscriminata nelle sue attenzioni: elogiava Eden per qualsiasi cosa, provocando in quest’ultima dubbi sul suo affetto.
Eden era arrabbiata ed esigente nelle relazioni: perdeva la pazienza per qualsiasi difetto o incapacità del partner di soddisfare tutti i suoi bisogni. Grazie alla psicoterapia, aveva riconosciuto l’origine del problema, ma non ne aveva trovato sollievo. Continuava a idealizzare e poi svalutare i suoi uomini, senza riuscire a stringere con essi una relazione intima.
Il vuoto interiore di Eden era un buon esempio di quello che lo psicoanalista Michael Balint ha definito il “rammarico del difetto basilare”: “Il rammarico o il rincrescimento che ho in mente riguardano la realtà incancellabile di un difetto o di una imperfezione che, di fatto, allunga la sua ombra su tutta la vita, e i cui effetti negativi non possono mai essere completamente trasformati in positivi. Anche se l’imperfezione può guarire, la sua cicatrice resterà per sempre; cioè, alcuni dei suoi effetti saranno sempre dimostrabili”.
Nel caso di Eden, nessun antidepressivo si rivelò efficace. Per trovare sollievo, ella dovette affrontare direttamente la sua sensazione interiore di vuoto, rendendosi conto che ciò che stava desiderando ardentemente non l’avrebbe più appagata. Poiché da bambina non aveva goduto delle necessarie attenzioni, si accorse che se qualcuno cercava di prestarle attenzione nella sua vita adulta, si sentiva oppressa e soffocata. Solo grazie alla tranquilla stabilizzazione della meditazione, riusciva ad affrontare l’ansia di questa sensazione interiore di vuoto senza reagire violentemente a essa.
Questo illustra l’approccio buddista. Una persona deve trovare il coraggio o l’equilibrio mentale per affrontare il proprio nucleo nevrotico o “difetto basilare” attraverso la disciplina della consapevolezza meditativa. Nella concezione buddista, tutti gli elementi della personalità hanno il potenziale di trasformarsi in veicoli per l’illuminazione; tutte le onde della mente non sono altro che un’espressione dell’oceano della grande mente.
La malattia mentale non è un concetto molto sviluppato nel pensiero buddista, se non forse in senso esistenziale, dove troviamo un’analisi squisita. I testi buddisti parlano dei due mali: uno interiore, consistente nella convinzione di un sé permanente ed eterno, e uno esteriore, consistente nel desiderio di un oggetto reale. L’oggetto dell’attenzione, nella psicologia buddista, è sempre la condizione esistenziale dell’ego soggettivo, espressa particolarmente bene da Richard De Martino nel classico Psicoanalisi e buddhismo zen (1960; in collaborazione con Erich Fromm e D. T. Suzuki): “Condizionato e dipendente dagli oggetti, l’ego è anche ostruito da questi ultimi.
Nella soggettività in cui è consapevole di se stesso, l’ego è allo stesso tempo separato e isolato da se stesso. Non può mai, in quanto ego, contattare, conoscere o avere se stesso nella piena e genuina individualità. Qualsiasi tentativo in questo senso lo rimuove come soggetto in perenne arretramento dalla sua stessa presa, lasciando semplicemente un oggetto immagine di se stesso. Continuamente elusivo a se stesso, l’ego ha se stesso meramente come oggetto. Diviso e dissociato nel suo centro, è al di là della sua stessa portata, ostruito, rimosso e alienato da sé. Nell’avere se stesso, non ha se stesso”.
È a questa aspirazione esistenziale verso il significato o la completezza, e alle sensazioni interiori di vuoto, mancanza, isolamento, paura, ansia o incompletezza, che la psicologia buddista si rivolge più direttamente. La depressione, in quanto entità critica, viene raramente considerata. I cinquantadue fattori mentali dell’Abhidhamma (i testi psicologici del buddismo tradizionale), per esempio, contengono un compendio di emozioni afflittive come l’avidità, l’odio, la vanità, l’invidia, il dubbio, la preoccupazione, l’inquietudine e l’avarizia, ma non includono la tristezza, eccetto che come un sentimento spiacevole in grado di tingere altri stati mentali. La depressione non è menzionata.
Nel tradizionale Abhidhamma, la mente viene descritta come un organo di senso, o “facoltà”, allo stesso modo dell’occhio, l’orecchio, il naso, la lingua o il corpo, che percepisce concetti o altri dati mentali, controlla gli altri organi di senso ed è soggetta a “oscuramenti”, veli di emozioni afflittive che oscurano la natura autentica della mente. La facoltà della mente e la consapevolezza prodotta da essa vengono considerate la fonte primaria della sensazione “io sono”, che è quindi presupposta reale.
Ma nella letteratura buddista non esiste un’analisi approfondita della propensione della mente a dissesti cui non è possibile porre rimedio con la sola pratica spirituale. Man mano che il buddismo si è evoluto, la sua attenzione si è concentrata ancora di più sulla scoperta della “natura autentica” della mente, piuttosto che sull’analisi della malattia mentale. Tale “natura autentica” è la mente rivelatasi naturalmente vuota, chiara e senza ostacoli. Il senso della pratica della meditazione è diventato l’esperienza della mente in questo stato naturale.
“Parlando in termini assoluti”, ha scritto il compianto maestro di meditazione tibetana Kalu Rinpoche, “le cause del samsara sono prodotte dalla mente, e la mente è ciò che ne sperimenta le conseguenze. Null’altro che la mente crea l’universo, e null’altro che essa lo sperimenta. Tuttavia, sempre parlando in termini assoluti, la mente è fondamentalmente vuota; in sé e per sé non esiste. La comprensione che la mente, creatrice e sperimentatrice del samsara, non è reale in sé, può certo rappresentare un grande sollievo. Se la mente non è fondamentalmente reale, non lo sono neanche le situazioni da essa sperimentate.
La scoperta della natura vuota della mente e il rifugio in tale scoperta possono essere fonte di grande sollievo e rilassamento nel tumulto, nella confusione e nella sofferenza che costituiscono il mondo”. Un bagliore di questa verità può provocare, da un punto di vista psicoterapeutico, una grande trasformazione, ma essa è piuttosto sfuggente per coloro la cui mente non riesce a prendere rifugio nel proprio stato naturale a causa di un’ansia, una depressione e uno squilibrio mentale profondi.
Timothy era un fotografo di successo la cui vita andò improvvisamente a pezzi. Il terapista che da quattro anni lo seguiva morì improvvisamente per un attacco di cuore, alla moglie venne diagnosticato un cancro al seno che necessitava contemporaneamente di un intervento chirurgico e di chemioterapia, mentre la sua gallerista fallì improvvisamente e chiuse la sua attività senza versare a Timothy le migliaia di dollari che gli doveva. Il suo studio sembrava contaminato dalle ansiose ore passate al telefono con la moglie e i dottori di lei; non vi riusciva più a prendere rifugio, e d’altra parte, a che pro andarci se nessuno gli vendeva le opere?
Nulla aveva più senso, gli sembrava di essere immerso nella morte e nell’angoscia, e cominciò a essere ossessionato dalla propria salute. Non essendo un attivo praticante spirituale, Timothy non disponeva di un contesto in cui collocare il dolore che l’aveva improvvisamente travolto; non sapeva come restare in quest’ultimo continuando la vita di tutti i giorni, e come essere presente al dramma della moglie. Controvoglia, andò con lei a un seminario di Jon Kabat-Zinn su come affrontare le malattie gravi; qui nacque il suo interesse verso la pratica buddista.
Lentamente, riscoprì la sua vitalità e tornò a prendere possesso dello studio; inoltre, imparò a relazionarsi con la moglie in un modo che l’ansia non esaminata gli aveva impedito. Ma la cosa più importante fu che la pratica del dharma sembrava dargli un metodo per sperimentare l’agonia mentale senza soccombere all’incredibile dolore da essa prodotto.
Quella di Timothy era una situazione in cui la medicina sarebbe stata fuori luogo. La sua crisi era esistenziale o spirituale, oltre che un caso di angoscia inesplorata; ed egli riuscì a trovare un po’ di quel sollievo cui fa riferimento Kalu Rinpoche.
Il desiderio che la meditazione possa, in sé e per sé, rivelarsi una sorta di panacea per tutte le sofferenze mentali è diffuso e certamente comprensibile. Lo psichiatra Roger Walsh ricorda un ritiro di tanti anni fa, in cui ebbe l’opportunità di osservare Ram Dass alle prese con un giovane che aveva avuto una crisi psicotica durante la pratica. «Oh, bene», si ricorda di aver pensato; «adesso vedrò Ram Dass affrontare in modo spirituale uno psicotico». Dopo aver osservato Ram Dass salmodiare insieme al giovane tentando di creare in lui una centratura meditativa, Walsh notò che fu necessario trattenere il giovane, a causa della sua agitazione e violenza crescenti.
A un certo punto, il ragazzo morse Ram Dass sullo stomaco, provocando un’immediata richiesta di Torazina, un potente farmaco anti-psicotici. Il desiderio di evitare la medicina con la pratica spirituale, di affrontare la mente nel suo stato primitivo, è certamente nobile, ma non sempre realistico.
Negli ambienti del dharma, la cura farmaceutica dell’ansia mentale continua a essere vista con diffidenza; esistono dei pregiudizi contro l’uso di medicine per correggere gli squilibri psichici. Così come alla malata di cancro viene chiesto di assumersi la responsabilità di qualcosa che potrebbe non dipendere da lei, allo studente depresso del dharma si dà troppo spesso il messaggio che nessun dolore è troppo grande per non poter essere affrontato sul cuscino di meditazione, che la depressione è l’equivalente della debolezza o stanchezza mentale, che il problema è nella qualità della pratica e non nel corpo. Ricordo quei pregiudizi quando studiavo psichiatria.
Ero molto diffidente verso tutti i farmaci psicotropi, e ponevo sullo stesso livello il litio e gli anti-psicotici come la Torazina, che mascherano o reprimono i sintomi psicotici senza correggere la condizione schizofrenica di base. Una delle poche cose concrete che è valso la pena imparare in quegli anni di studio, fu che esistono davvero molti stati psichiatrici che è possibile curare o prevenire con l’uso di farmaci, e che la negazione di tale cura è una follia.
Ciò non vuol dire che sia sempre chiaro quando un problema è chimico, psicologico o spirituale. Non esistono esami del sangue per la depressione, a esempio. Tuttavia, certe costellazioni di sintomi mostrano invariabilmente la presenza di una situazione curabile che difficilmente si risolverà grazie alla sola pratica spirituale.
Peggy arrivò alla pratica del dharma poco dopo aver compiuto venti anni, mentre attraversava un periodo di profonda depressione. Sperduta nella controcultura, disaffezionata alla madre divorziata, alcolizzata e prepotente, esilmente legata al padre introverso e indulgente, stava prendendo in considerazione il suicidio quando si imbatté nel suo primo insegnante del dharma, a San Francisco. Sentendosi “scoperta” da quell’insegnante, abbandonò l’idea del suicidio e si tuffò nella pratica del dharma per i successivi diciassette anni.
Ma quando cominciò a conoscere da vicino un insegnante dopo l’altro, perse la capacità di idealizzarli come aveva fatto in principio, e gradualmente si disilluse. Successivamente, la madre si ammalò di cancro, una relazione che durava da cinque anni finì e, allo scoccare dei quaranta anni, la sua migliore amica ebbe un figlio. Allora Peggy diventò sempre più chiusa e ansiosa. Si sentiva stanca e nervosa, debole e letargica (ma incapace di dormire), piena di pensieri ossessivi e carichi d’odio, incapace di concentrarsi sul lavoro o sulla pratica del dharma.
Si mise a letto, perse interesse negli amici e cominciò a pensare di essere già morta. I suoi amici la portarono in una comunità spirituale, da molti guaritori e da diversi autorevoli insegnanti buddisti che alla fine l’indirizzarono verso le cure psichiatriche. Come si scoprì, dalla parte materna della sua famiglia esistevano casi precedenti di depressione. Peggy era convinta di essere condannata a ripetere il declino di sua madre; si sentiva un fallimento come buddista, e tuttavia era restia a considerare la sua depressione una condizione che giustificava la cura medica.
Dopo quattro mesi di assunzione di antidepressivi, cominciò a sentirsi meglio; continuò tale cura per un anno, e da allora non ne ha più avuto bisogno. Durante la depressione, era semplicemente incapace di trovare la concentrazione necessaria per meditare efficacemente. Il “punto di vista assoluto” che descrive Kalu Rinpoche non era alla portata della sua consapevolezza.
La tradizione psichiatrica con più esperienza nella distinzione tra malattia mentale esistenziale e biologica, è probabilmente quella tibetana, formatasi in una cultura e una società completamente immerse nella teoria e pratica del buddismo. Le autorità mediche tibetane riconoscono diverse “malattie mentali” per le quali consigliano interventi farmaceutici e non meditativi; tra esse, molte corrispondono alle diagnosi occidentali di depressione, malinconia, panico, depressione maniacale e psicosi. Non solo la meditazione non viene sempre consigliata come primo trattamento, ma si riconosce che spesso essa può aggravare tali condizioni.
In realtà, è ben noto che la meditazione, in sé, può provocare una patologia psichiatrica, uno stato di ansia ossessiva che è un risultato diretto del tentativo di concentrare la mente in modo rigido e inflessibile sull’oggetto di consapevolezza. Come scrive la compianta Terry Clifford nel suo libro Tibetan Buddhist Medicine and Psychiatry, secondo la tradizione tibetana questi insegnamenti medici furono esposti dal Buddha nella manifestazione di Vaidurya, all’interno del paradiso mistico della medicina chiamato Tanatuk, il cui significato letterale è: “Ciò che dà piacere quando lo si osserva”.
Qui, si dice che Vaidurya abbia detto che “tutte le persone che desiderano meditare, raggiungere il nirvana e godere di buona salute, lunga vita e felicità, dovrebbero imparare la scienza della medicina”. Le cure per le malattie mentali non sono antitetiche alla pratica del dharma; anzi, sembra che gli insegnamenti tibetani sostengano che esse possono essere venerate come manifestazioni del Buddha della Medicina stesso.
Tuttavia, oggigiorno molti studenti del dharma afflitti da tali malattie mentali hanno difficoltà a identificare le cure efficaci come manifestazioni del Buddha della Medicina. Sembra che preferiscano considerare i loro sintomi come manifestazioni della Buddha-mente. Per esempio, di recente ho avuto un paziente di nome Gideon, brillante matematico teorico, professore universitario e persona orgogliosa, caparbia e creativa, che durante gli studi universitari si è avvicinato alla pratica buddista. In quegli anni, egli ebbe un “esaurimento nervoso”: per sei mesi fu inquieto e agitato, sperimentava fiammate di energia creativa, nella mente frenetica i pensieri si accavallavano uno sull’altro, i suoi stati d’animo erano labili e lacrime e risate si succedevano in breve tempo; inoltre, aveva molta difficoltà a dormire.
Alla fine crollò e passò una settimana all’ospedale, ma nei successivi cinque anni non ebbe più problemi. Dai trenta ai quaranta anni ebbe molte crisi depressive; la sua produttività al lavoro diminuì, si sentiva triste e chiuso, e si ritirò in una sorta di penosa solitudine. Essendo fortemente contrario alle cure mediche, superava quelle depressioni chiudendosi nel suo appartamento e restando sdraiato nel buio della sua stanza. Poi le crisi finirono e Gideon riuscì a tornare al lavoro.
Dopo i quaranta anni ebbe una serie di crisi, molto simili all’esaurimento nervoso della gioventù, ma questa volta divenne anche paranoico: udiva messaggi speciali che gli venivano inviati attraverso la televisione e la radio, e che lo mettevano in guardia contro una cospirazione. Il ricovero psichiatrico fu richiesto dopo che venne indotto a cercare riparo in Central Park.
La malattia di Gideon era maniaco-depressiva: un disturbo episodico del carattere che di solito comincia a manifestarsi nella prima età adulta e che può provocare depressioni ricorrenti, euforia o una combinazioni di tutte e due. Caratteristica di questa malattia è che le crisi vanno e vengono, e tra l’una e l’altra il soggetto ritorna allo stato normale. Molte persone affette da tale malattia ritengono che le crisi siano prevenibili o almeno fortemente ridotte dall’assunzione quotidiana di sali di litio. Gideon opponeva una grande resistenza all’idea di avere questa malattia e all’assunzione di litio.
Citava il dharma della “mente che prende rifugio nel suo stato naturale” per giustificare il rifiuto di prendere medicine. Dopo i quaranta anni, le crisi maniacali colpirono ripetutamente Gideon, con frequenza di quasi una all’anno, compromettendo seriamente la sua carriera accademica. Per un certo periodo di tempo, la famiglia cercò di mettergli a sua insaputa le medicine nel cibo, ma ciò servì solo ad accrescere la sua paranoia.
A tutt’oggi, egli si rifiuta di assumere volontariamente medicine. Gideon resta un uomo orgoglioso e dall’intelligenza vivace, capace di lavorare produttivamente tra una crisi e l’altra, ma la malattia lo sta destabilizzando inesorabilmente.
Attraverso questi episodi, intendo chiarire che né la meditazione né la medicazione sono uniformemente benefiche in tutti i casi di sofferenza mentale. La pratica della meditazione può essere di grandissimo aiuto o può contribuire a rafforzare il rifiuto. Negli ambienti del dharma esiste ancora molta ignoranza sui benefici del trattamento psichiatrico, così come nell’ambiente psichiatrico esiste un’ignoranza corrispondente sui benefici della pratica meditativa.
In aggiunta, nella storia della psicoanalisi c’è uno spiacevole parallelo all’attuale pregiudizio degli ambienti del dharma contro le cure farmaceutiche. Il primo gruppo di seguaci di Freud era costituito dagli intellettuali radicali dell’epoca. La fiducia e l’entusiasmo verso questo nuovo e profondo metodo di cura li portò a considerarlo una panacea, in modo molto simile a ciò che l’avanguardia di oggi sta facendo con la pratica buddista
La figlia di Luis Comfort Tiffany, Dorothy Burlingham, figura di spicco nella New York del primo novecento, lasciò il marito maniaco-depresso a causa delle sue continue e incessanti crisi, e nel 1925 portò a Vienna i suoi quattro figli per cominciare un’analisi con Freud. Dopo essersi trasferita nell’appartamento sottostante a quello di Freud, Dorothy Burlingham cominciò una relazione con la famiglia Freud, che la portò a vivere con Anna Freud per il resto della sua vita (morì nel 1979).
Anna Freud divenne l’analista dei suoi figli, ma almeno uno di essi, Bob, sembra aver ereditato la depressione maniacale del padre. La tragica storia è stata raccontata dal nipote di Dorothy, Michael John Burlingham, nel libro The Last Tiffany: Bob soffrì di inconfondibili crisi maniaco-depressive e morì alla giovane età di cinquantaquattro anni. Ma così grande era la fede di Anna Freud nella psicoanalisi, che anche quando fu scoperta l’efficacia del litio nel trattamento profilattico, non ne prese mai in considerazione l’uso. Bob poteva essere curato solo con ciò che ricadeva nei parametri dell’ideologia freudiana, notoriamente inefficace per la sua malattia.
Senza dubbio, esistono dei praticanti del dharma che si stanno danneggiando allo stesso modo, per una fede simile nell’universalità della loro ideologia. Queste persone farebbero bene a ricordare gli insegnamenti del Buddha sulla via di mezzo, e soprattutto il suo consiglio contro la ricerca della felicità attraverso l’automortificazione delle diverse forme di ascetismo, da lui definite “dolorose, senza valore e prive di beneficio”.
Ostinarsi a soffrire per una malattia psichiatrica, quando la cura è misericordiosamente disponibile, non è altro che una pratica ascetica contemporanea. Il Buddha stesso tentò queste pratiche ascetiche, ma le abbandonò. Il suo consiglio è degno di essere tenuto in considerazione.
Nota: Tutti i nomi, i dettagli e le caratteristiche che possono permettere un’identificazione dei casi trattati in questo articolo, sono stati cambiati.
Mark Epstein è praticante buddista e psichiatra con studio privato a New York.
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Mark Epstein. Lasciarsi andare per non cadere in pezzi. Neri Pozza. 1999. ISBN: 8873056911
Erich Fromm, Suzuki, De Martino. Psicoanalisi e buddhismo zen. Astrolabio. 1968. ISBN: 883400051X
Terry Clifford. Medicina tibetana del corpo e della mente. Mediterranee. 1991. ISBN: 8827206078
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Mark Epstein. Going on Being: Buddhism and the Way of Change. Broadway Books. 2002. ISBN: 0767904613
Originalmente pubblicato su Tricycle magazine, www.tricycle.com
Copyright originale Mark Epstein, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.
Credo possa essere interessante riportare i commenti che erano stati scritti quando l’articolo di Mark Epstein era stato pubblicato in origine nel “vecchio” Innernet, per creare una sorta di continuità. Il bello di questi articoli è che non sono passeggeri e legati ad un momento specifico.
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Gagan [25 Set 04, 16:38]
Risveglio al Prozac
Personalmente, ritengo che questo sia uno degli articoli più
interessanti pubblicati da Innernet. Espone con chiarezza verità che
finora avevo intuito solo confusamente: molti meditatori hanno problemi
di depressione; la pratica meditativa, anziché favorire la cura, può
essere controproducente; i meditatori depressi si sentono ancora peggio,
in quanto si confrontano all’ideale di beatitudine di cui parlano i
maestri; infine, tutti questi fatti costituiscono una “verità non detta”.
Epstein ha un’idea forte: l’uso degli psicofarmaci può andare bene, in
determinati casi. Questo è un concetto difficile da accettare per molti
di noi, che abbiamo sentito ripetere in continuazione “l’unica vera
medicina è la meditazione” (cui si fa sempre seguire l’inevitabile
accenno alla comune radice med-), “la medicina allopatica guarisce i
sintomi, non le cause”, “l’industria farmaceutica è cinica e
inaffidabile”, “i farmaci sono invasivi e distruttivi” ecc.
Epstein cerca sostegno nell’antica tradizione buddista e nei molti
esempi tratti dalla sua pratica professionale, come è nel suo stile. Il
suo articolo mi sembra convincente e pieno di idee nuove (almeno per
me). Non sono né uno psichiatra né un esperto di medicina buddista,
quindi non posso entrare nel merito dell’articolo (mi auguro, invece,
che altre persone più competenti di me lo facciano). Però appartengo a
quel numero di meditatori che ogni tanto ha dovuto far ricorso alle
medicine di cui parla Epstein, quindi ho trovato il suo articolo
interessante pure dal punto di vista personale.
Consiglio anche la lettura di “Lasciarsi andare per non cadere in
pezzi”, che mi pare l’unico suo libro tradotto in italiano.
Gagan [27 Set 04, 18:26]
Re: Risveglio al Prozac
Oggi ho visto in libreria la seconda parte di “Tutto quello che sai è
falso”. Il titolo e il disegno in copertina (un diavolo stilizzato), mi
spingerebbero a lasciare tranquillamente il libro sugli scaffali, ma
siccome ne ho sentito parlare bene, l’ho sfogliato.
Vi ho trovato un articolo di uno degli autori di Innernet (Richard
Degrandpre) il cui titolo pare una parodia di questo scritto di
Epstein: “Suicidi al Prozac”.
Contiene delle informazioni interessanti: pare che tra gli effetti
collaterali del Prozac vi siano tendenze suicide e omicide, e che la
casa produttrice (la Ely Lilly) abbia fatto di tutto per nasconderlo. Io
sono sempre un po’ scettico di fronte a questo tipo di libri. Ma in
fondo cos’è il Risveglio se non è l’omicidio/suicidio dell’ego? :-)
Ergosum [01 Ott 04, 12:02]
Thè alla cannella
Lo credo bene, Epstein ragiona in maniera concreta, me ntre la maggior
parte di ciò che appare su questo sito sono astrazioni, in primis quelle
dei famosi guru. Andrew Cohen, per dire, è un tale che un mattino ha
capito che fare il mestiere del guru gli avrebbe tolto il disgusto di
lavorare. Quando un amico, tempo addietro, mi ha portato la sua
autobiografia, l’ho letta in un pomeriggio e l’ho riletta il giorno dopo,
in un fiato. Una vis comica enorme, meglio di Woodhouse (lo spelling è
giusto?). Ho letto l’altro giorno questo strepitoso Barry Long, che aveva
5 amanti e nessuna è mai stata gelosa, e poi che, essendo lui il solo
maestro tantrico occidentale, quando fa l’amore (anzi, lo faceva), è Dio
che fa l’amore con Dio. Tutto, pur di stupire. Ma penso che la vita
sia ‘stupefacente’ assai di più e in maniera assai diversa di tali
fanfaronate verbali.
Ormai, ci sono più guru e maestri spirituali al chilometro quadrato di
quanto siano gli idraulici. Si guadagna anche di più. In California, sono
ormai più della metà della popolazione.
Quanto al buddhismo, non è meglio delle religioni monoteiste, anche se
queste grondano sangue ed ipocrisia clericale. Si tratta, alla fine, solo
di parole e il potere che esercitano è solo nell’ambito del pensiero.
L’illuminazione di parecchi che la rivendicano ha radici altrettanto
materialistiche e prosaiche del Prozac o di un Placebo.
Beh, adesso vado a farmi un the alla cannella. Che c’è di meglio, nella
vita? Beh, molte cose, ma mi accontento.
Enzo
VDD [05 Ott 04, 11:41]
Re: Risveglio al Prozac
Mah, da un lato Epstein ha il merito di svelare tutta una serie di luoghi
comuni, che chiunque frequenti ambienti “spirituali”, conosce e che
andrebbero veramente superati.
Dall’altro mi sembra un po’ approssimativo. (sto pensando anche ad altri
scritti di Epstein)
Ho la sensazione che la sua pratica meditativa, e conoscenza intelettuale
del Dharma, non si spinga oltre un certo punto. Daltronde da buon
vecchio praticante sara’ anche ben “stagionato”, per non dire bloccato.
E’ facile che questo accada soprattutto se poi pretendi di realizzare un
incrocio impossibile e cioe’ quello del metodo scientifico (neanche con
una epistemologia particolarmente “aperta”, come potrebbe essere quella
di altre correnti) con il punto di vista delle tradizioni orientali.
Assistiamo ad un tentativo da parte dell’occidente di appropriarsi di
antichi insegnamenti, personalizzarli, renderli adatti ad una vita molto
diversa da quella vissuta nei contesti originari, e per far questo alcuni
arrivano a formulare nuovi concetti di filosofia della scienza, ma non e’
il caso di Epstein, appunto. Ho la sensazione che questo modo di
procedere sia errato da un punto di vista strettamente meditativo. In
questo modo avremo una meditazione sicura ma estremamente circoscritta in
un ambito intellettuale, cosa che nega la stessa essenza della pratica
meditativa.
Certo il suo pensiero e’ indubbiamente valido per la folta schiera di
meditanti occidentali che potrebbero ad un certo punto rendersi conto di
aver bisogno di una sana Psicoterapia, invece che della meditazione, ed
eventualmente riprendere a meditare sucessivamente. Questa e’ anche stata
la mia esperienza in 20 anni di meditazione e non escludo di dover
tornare a fare Psicoterapia.
Sui farmaci qui il discorso si fa ancora piu’ delicato.
Non ne conosciamo i veri effetti.
I vari bugiardini o pubblicazioni specialistiche sino a che punto sono
veritieri?
Mia sorella Farmacista appare sempre sicura sugli effetti di un
determinato farmaco, ma su questo invece ci sono altri che esprimono
molti, molti dubbi.
Da ambienti del settore, quindi non contro i farmaci, emergono due
ipotesi inquietanti: la prima e’ che solo il 50 per cento dei farmaci
siano afficaci, la seconda che solo il due o tre per cento lo siano.
Se andiamo poi sugli psicofarmaci e’ un disastro. Su alcune
Benzodiazepine, usate da milioni di persone in Italia, solo da poco e’
apparsa la dicitura: “possono indurre al suicidio”.
giusy [19 Giu 05, 10:38]
Re: Risveglio al Prozac
Ho letto l’articolo e le risposte….
Premetto che, pur ricevendo regolarmente le news da innernet da un bel
pò, non ho mai “ficcato il naso” nel sito.
Da un paio di giorni gironzolo qui dentro.
E man mano trovo, scopro le cose, gli articoli, le risposte, le
personalità che frequentano attraverso il forum.
Ho trovato articoli interessanti e risposte argute in generale,
frammezzate anche da piccole o grandi esaltazioni e qualche strafalcione
(almeno dal mio punto di vista).
Questo articolo sugli psicofarmaci mi suggerisce una riflessione, che non
nega a priori la bontà della soluzione del Prozac (o simili) come la
possibilità di prendere la seggiovia nei momenti in cui la salita diventa
più ripida e gli appigli diventano veramente pericolosi ed instabili: se
qualcosa ci può veramente sbloccare perkè ci stiamo ristagnando in
qualche fossa psichica, io penso: perkè no! Sperando di aver preso la
seggiovia che sale e non quella che riporta a valle e che il filo della
teleferica non si spezzi proprio mentre noi ci stiamo su (ma santo cielo
se dobbiamo vivere qualke rischio dobbiamo pur correrlo!); comunque vengo
alla riflessione: più o meno a tutti quelli che praticano una strada
spirituale (resta da definire cos’è una strada spirituale, vogliamo
chiamarla solo esperienza di vita vissuta?) capita di impattare contro la
depressione, capita capita…. secondo me capita sempre…
Si parlava nell’articolo di pratiche di cinque anni o dieci non ricordo
bene, insomma di pratiche molto lunghe, nelle quali l’elemento
depressione era sempre o spesso presente, qui entra il fattore tempo,
certo se cinque anni sembrano un tempo sufficientemente lungo a far
pensare che una certa meditazione o un certo percorso non funzioni,
allora era meglio prendere il Prozac già dal primo momento, con questo
non voglio dire che occorra preparasi a decenni di depressione durante
una pratica, ma vorrei mettere l’accento sul concetto di tempo, cioè
voglio dire non c’è un lasso di tempo per definire se uno strumento sta
funzionando, anche perkè avere in mente un risultato è già dippersè
qualcosa che blocca il percorso… io credo… come ricordava spesso un
mio carissimo amico ormai scomparso… BISOGNA AMARE IL PERCORSO NON LA
META…. riuscendo ad amarlo da subito senza guardare oltre forse, forse,
ma veramente forse, la depressione può sparire all’istante. Altresì se
non si ama il percorso perchè seguirlo per cinque, dieci o venti anni?
Capisco che alla fine, ma anche dall’inizio a volte, ci si possa sentire
depressi e frustrati se stiamo costringendoci a fare qualcosa che non ci
piace affatto!!!
Ma se io posso essere felice guardando il vermetto Uti (si chiama così
Ergosum? Spero che un giorno me lo presenti) perkè devo costringermi a
stare ore e ore a recitare un mantra, solo perkè qualcuno ha detto che
farà un gran bene? La cosa bella è che abbiamo la possibilità di
sperimentare da soli cosa ci può rendere felici e cosa amiamo, perkè
accontentarsi dei suggerimenti delle sperimentazioni degli altri?
paritoshluca [20 Giu 05, 22:00]
Re: Risveglio al Prozac
Sono sincero…:mi hai commosso!
Sentire un discorso sensato, di questi tempi è assolutamente
raro..Soprattutto quando dici che la via è la meta…una vera perla..di
consapevolezza..Io ho fatto proprio così:ho preso il toro per le
corna..ho gettato all’ortiche la tonaca ingrigita di tutte le tecniche
pallose,e ho cominciato a meditare su ciò che mi interessava…e
naturalmente le cose che più ti interessano sono i tuoi
vizi..soffermarsi sulle cose che non ti interessano è semplicemente
perdere tempo..ma quelle che ti interessano sono pericolose..perchè non
ci si può prendere in giro per molto…e la via che scende,è anche la
via che sale..e lo scendere è naturalmente la prima opportunità che
abbracciamo con entusiasmo..a salire c’è sempre tempo..Quando l’aria
comincia a farsi irrespirabile ecco che il momento di risalire è
giunto…è arrivato il momento “duro” ed è qui che si vede
il “valore”..per fortuna il nostro corpo è forte abbastanza per reggere
le debolezze,ma non all’infinito..anche se veniamo perdonati settanta
volte sette c’è sempre la 491esima volta..il momento che anche Dio perde
la pazienza..ma chi arriva a questo punto,non era “tagliato”..e
l’Universo lo destinerà in un ruolo più confacente..Quello che dici cara
(pardon) Giusy è l’eterna lotta tra l’iniziato e il “religioso”..tra chi
vuol vivere con la propria testa,e chi si riempie di
libri .Bibbie..tecniche..etc..
Naturalmente ha ragione l’iniziato..ma non subito,anzi..chi si
appiattisce nelle tecniche ,superficialmente sembrerà più virtuoso..un
vero sanniasyn..non proverà vergogna a farsi vedere in giro in qualche
festival..tutti potranno dire:ma che bell’energia!…si vede che stai
crescendo!…il tutto con una puntina di invidia..che manda
il “meditatore” in brodo di giuggiole…questo è il “tecnico”..che ha
messo un masso sopra a ciò che lo interessava veramente..e l’altro?
All’inizio è un vero sfacelo…si vergogna di come è ridotto..non si fa
vedere molto in giro..si è buttato con assoluta incoscienza su ciò che
lo attirava..ed è sceso a livelli subumani..altro che ricercatore
interiore..per il mondo è un vero vizioso..irrecuperabile..ma,..ma, nel
proprio cuore sa che se devi uccidere un nemico..è necessario che si
stani dalla sua grotta..il ragno va cavato fuori dal buco..e se lo
cavi,c’è anche il rischio che ti punga..entrare nei propri vizi e
uscirne..questa è la strada ..la mia strada..e…speriamo bene! Anche se
dovrò morire nel combattimento..almeno non mi sarò annoiato con tutte
queste tecniche pallose..anche se una tecnica la devi fare per forza..ed
è il vipassana…non del respiro…ma dei tuoi
gesti..osservarti..continuamente..I danni avvengono quando non ti
osservi. e la “bestia” scorrazza nella tua anima…senza che nessuno la
guardi..dico guardi e non controlli..che sono cose assolutamente
diverse…
Cosa c’entra il prozac? Assolutamente niente..perchè è qualcosa che non
puoi gestire..dovresti essere un medico ed avere accesso a tutti i tipi
di sostanze psicotrope droghe comprese..allora gli psicofarmaci
potrebbero essere la tua “via”..in quanto ne diventeresti esperto..e ne
potresti quindi sfuggire…dopo un bel po’ di tempo…Come il
sesso..come il cibo..perchè la depressione viene in quanto non riesci a
meditare..è assolutamente impossibile essere depressi quando
mediti..perchè la depressione è la tremenda percezione del proprio
isolamento..che è tale appunto perché non sei sintonizzato nel tuo
centro..cioè non mediti…Prendere psicofarmaci è dare potere al medico
che te li prescrive..molto meglio usare il cibo..che è più facilmente
controllabile e reperibile..mangiare come un forsennato è una specie di
prozac che fa ingrassare..più onesto..perchè prima o poi tutte cose ci
presentano il conto..e le brutte sorprese sono all’angolo..Sesso e cibo
sono il prozac naturale…è meglio non fare troppo i furbi….
Scusatemi ma sto facendo tardi e devo andare a cena.. La bestia mi
chiama…Ciao….a tutti…
Bipo [20 Ago 07, 16:19]
Re: Risveglio al Prozac
Dopo tanto tempo che avevo questo articolo a disposizione, ho deciso di
leggerlo con attenzione.
Sto di nuovo male, davvero male. Senza un apparente perché. La mia mente
galoppa, presagisce sventure, va in ansia per questo. Il groppo in gola
che è il segno corporeo del mio malessere ha ricominciato ad essere lì,
presente, vigile, come dovrebbe forse esserlo la mia consapevolezza che
non c’è. Cerco di stare dietro alla mia mente, ma vince lei, non c’è
niente da fare. Se esiste questa benedetta consapevolezza, io non so
cos’è, ed evidentemente mi piace crogiolarmi in questo stato di vittima
di me stesso, anche se questa cosa, poi, mi fa sentire terribilmente in
colpa.
Mi sento solo e nudo come un verme.
Sul lavoro sono svogliato, inconcludente, spaventato. Mi perdo nelle
piccolezze. Il gruppo di progetto che gestisco mi ha fatto presente che
sono “poco presente”, non fisicamente ma mentalmente. Ci credo, come dar
loro torto?
Atisha mi dice che prendo per il culo. Sì, prendo per il culo,
innanzitutto me stesso. Sono alla perenne ricerca di un modo per
fregarmi e per fregare gli altri.
Un esempio. Qualche anno fa ho sofferto per qualche mese di psoriasi. Le
ho provato tutte: dermatologia classica, di due o tre tipi, cortisone,
lampade solari e bagni al sale, e l’omeopatia. Alla fine ricordo che un
bel giorno mi sono svegliato e ho pensato: vaffanculo, se devo tenermi
per sempre sta roba, allora me la terrò. E la psoriasi e passata. Ora,
cerco di trasformare quest’esempio, forse, di “resa”, e la trasformo in
una tecnica; mi dico: “mi terrò la depressione per sempre!”, e sto lì ad
aspettare. Ovviamente non funziona, forse perché non sono coivolto
emotivamente, perché tutta la mia emotività è investita nella sofferenza
e nella tristezza, forse perché in fondo voglio proprio soffrire, e chi
vuole aggiunga altre cazzate del genere, ché tanto nemmeno queste mi
aiutano.
Mi dà fastidio quando leggo gente che parla di depressione confondendola
con uno stato, anche duraturo, di tristezza. Forse quanto sto dicendo fa
parte della mia identificazione, facciamo così, per lo credo veramente
perché lo vivo nella mia esperienza: la depressione di cui vi racconto
io è UNA MALATTIA. E il fatto che esistono molecoline che ti fanno
funzionare il cervello in un’altra maniera e ti fanno sentire meglio, mi
conferma questa convinzione.
Non auguro a nessuno quello che vivo (sì, lo so, voglio essere il
campione del mondo di sofferenza, trarne un senso del sé e una mia
identità, ma lasciatemelo fare, porca puttana!).
Magari questa atroce sofferenza è simile al dolore di un parto, magari è
il preludio all’illuminazione, come è successo al Tolle, ma sento che
potrebbe durarmi per tutta la vita, o anche portarmi a farla finita del
tutto. Vi basti pensare che il mio unico desiderio, in questo momento ma
è una cosa che dura per ore, anzi giorni, è andare a letto e stare lì a
fare niente. Oppure scappare, dove non lo so (sì, lo so, non posso
scappare da me stesso, eccetera eccetera).
Indi per cui ho deciso: stasera vado dal dottore e gli chiedo di ridarmi
le goccine.
Viva gli inibitori della ricaptazione della serotonina! Abbasso la
meditazione e la consapevolezza, il quieora e tutto il resto!
atisha [20 Ago 07, 21:44]
Re: Risveglio al Prozac
mi spiace tu stia male!! acc..
mi verrebbe da dirti tante cose
ma so che pubblicamente non le accetteresti
come non accetterei di dirtele io..
e sappiamo entrambi il perchè…
sei troppo consapevole di tutto..
le goccine però..
ciò che posso solo dire è che se ti fa piacere sai dove trovarmi
Bipo [22 Ago 07, 19:26]
Re: Risveglio al Prozac
Spara.
Il perché non accetterei le cose che mi dici sinceramente non lo so.
atisha [22 Ago 07, 21:35]
non ho pallottole…
perchè siamo all’aperto..
e le regole del gioco variano
e probabilmente non accetteresti ciò che “apertamente” ti direi
l’ego.. la mente ha il proprio strato di tessuto.. e va rispettato
:-)
http://it.youtube.com/watch?v=9MAVudLGYTA
che coincidenza!
questo articolo riappare proprio in questo particolare momento.
Ho letto i commenti, che non ricordavo e forse non avevo proprio notato.
Mi ha colpito, oltre che la testimonianza di Bipo, il commento di Giusy, nel passaggio in cui sottolinea che una stato di benessere che dura più di un decennio, possa essere considerato uno stato illusorio si salute psichica, mi risulta infatti che i per la diagnosi delle malattie su base psichica o nevrotica devo protrarsi per un certo periodo di tempo e ripresentarsi entro certi intervalli.
Non voglio annoiare con la mia biografia, ma l’argomento è complesso, la casistica varia e sfumata, e “paradossalmente”, il senso di disagio e la sofferenza terribilmente reali, facendo un esempio (il mio): può essere svanito, grazie ad un percorso di crescita interiore il senso di vuoto di insoddisfazione e tristezza, ma ripresentarsi a grande distanza di tempo un quadro sintomatico fisico tipico dell’ansia, senza “ansia”.
Diventa comprensibile allora, tra la variegata platea di persone sofferenti, la volontà disperatamente caparbia di contrastare certe configurazioni psicosomatiche associata all’ostinata pretesa di cavarsela da soli o ricorrendo a qualsiasi alternativa o risorsa “dolce” rispetto alle soluzioni proposte dalla scienza psichiatrica, specialmente in presenza di dubbi, timori e disinformazione circa l’efficacia e la tossicità delle sostanze utilizzate in psichiatria e aggiungiamoci pure la difficoltà ad avere garanzie circa la competenza, la sensibilità e la preparazione degli specialisti.
Auguri a tutti.
E sempre grazie a Ivo Quartiroli, per la sua sensibilità e per l’incredibile e misterioso tempismo.
Credo che chi ha turbe psichiche o psicosomatiche abbia innanzi tutto bisogno di riferimenti molto forti e molto chiari.
Lasciando la parte più strettamente medica delle cure, su cui non ho alcuna competenza tranne letture da semplice curioso, vorrei soffermarmi sulla parte “meditativa”.
Ovviamente con meditazione intendiamo un certo tipo di attività riconducibile o meno ad una religione.
In quest’ultimo caso, nel caso di una meditazione di stampo religioso, ci troviamo di fronte al solito e discusso effetto della religione nella vita comune. Un effetto che, con riferimento al campo medico e visto che ci stiamo occupando di persone ammalate, considero simile ad un intervento di chirurgia invasiva: può dare ottimi risultati ma gli effetti collaterali possono essere terribili. Inoltre la cura deve essere drastica (il medico pietoso fa la piaga suppurenta, recita un antico proverbio).
Nel senso che la religione va accettata in toto, con tutte le “mutilazioni” che un laico vede apportare dalle religioni.
Il rimettersi con fede assoluta alla volontà di Dio del cristiano può avere effetto terapeutico simile al rimettersi al Budda.
Ed il rimettersi al Budda, che in campo psichiatrico oggi è più di moda, implica sia l’accettazione di un metodo (la meditazione nelle sue varie forme) che l’accettazione di una certa linea di pensiero.
Credo che il metodo non abbia controindicazione, mentre l’accettazione di una linea di pensiero porta, in caso di ritardo nei risultati, a ciò che descrive l’autore, e cioè l’insorgere nel fedele-paziente di sensi di colpa ulteriori, non certo curativi.
Ma anche sul metodo c’è qualcosa da ridire perché, semplificando al massimo, andiamo da una semplice osservazione di se stessi (osservazione del respiro, quattro fondamenti della presenza mentale) a forme via via più complesse quali quelle del buddismo tibetano e delle varie scuole, tutte in genere daccordo su raccolte innumerevoli di proposizioni (magari diverse fra le varie scuole: i cinque fattori dell’attaccamento, i sette fattori dell’illuminazione, i sedici …. i trentadue…. e via discorrendo).
Per esperienza personale (da praticante la meditazione, non da ammalato psichiatrico, anche se oggigiorno qualche problemino lo abbiamo tutti) trovo sempre valide le pratiche elementari, quelle che con più probabilità sono riferibili al Budda, ma difficilmente ci si ferma a queste ed allora, invece che progredire, cominciano le delusioni.
Ad esempio trovo splendidi gran parte degli insegnamenti di Thich Nhat Hanh, ma sempre condizionati dalla sua storia personale (ovviamente anche in bene) e dal fatto di essersi fatto monaco in tenera età.
Ebbene chi ha problemi psichici spesso ha difficoltà a trovare un equilibrio comportamentale. Ed un monaco, o un sacerdote, sono le persone meno indicate per tracciargli una strada. Se pensiamo ad esempio all’importanza che Freud da al sesso nei disturbi psichici dobbiamo convenire che l’indirizzo comportamentale di un monaco e di un sacerdote (la castità), non è generalmente un toccasana per uno “squilibrato”.
Ed allora?
Siccome difficilmente ci si ferma alle meditazioni “elementari” è necessario l’apporto di un terapeuta – istruttore di meditazioni che sia a sua volta abbastanza equilibrato (potremmo dire illuminato, ma, in senso classico, l’illuminazione è posta così in alto che è per tutti solo una aspirazione, compresi tutti i Perfetti Illuminati del passato).
Per rimanere su chi cerca “fai da te”, che in campo di pura ricerca è il metodo più adatto o almeno la base per altri metodi ed insegnanti, trovo un ottimo insegnamento in Eckart Tolle (Il potere di Adesso) che sviluppa il metodo senza indottrinare, diciamo in un certo senso, proprio con il criterio del primo Budda.
Ovviamente è solo la mia opinione
Wuaw
Ciao Bipo, ho letto il tuo post solo oggi, quindi spero che dal venti agosto la tua situazione sia migliorata. Sicuramente non sono un tempista ma volevo esprimerti il mio modesto pensiero, solo per il fatto che capisco ciò che scrivi e quello che provi. Mie regresse esperienze…
Semplicisticamente ti consiglio di fare una bella ricerca, ma non dentro di te. La ricerca più intelligente da fare è quella del farmaco migliore che vada ad aiutarti a bypassare il tuo male. Che sia ricaptazione del cavolo o benzodiazepina. Te lo dice uno che tentò più volte il suicidio e che si è fatto due comunità per alcolisti. Sono d’accordo che l’impero farmaceutico è l’impero del male ma, dentro qualcosa di buono c’è ed è per questo che va fatta una vera ricerca affinchè ognuno in questo terribile bisogno possa trovare il tampone adatto per la sua emmorragia. In bocca al lupo!
condivido appieno il consiglio di Lambertland per esperienza personale (per fortuna non drammatica) e familiare (molito più significativa).
Se sei sotto un camion non puoi imparare tecniche meditative per vederne l’illusorietà o realizzarne lo spostamento col pensiero.
Chiami il carro attrezzi.
In bocca al lupo