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A pochi chilometri da Bordeaux vive un monaco vietnamita che è una delle voci più alte della spiritualità di ogni tempo: Thích Nhất Hạnh.

Qui, nel 1982, ha fondato il Villaggio dei Pruni, una vera e propria oasi buddhista accessibile a tutti, così come accessibili appaiono, leggendo i suoi testi, una religione e una concezione del mondo molto lontane dall’Occidente. Tratto da “Thich Nhat Hanh La felicità della Piena Consapevolezza” di Jean-Pierre e Rachel Cartier – ed. Lindau.

In dodici, nove ragazze e tre ragazzi, sono seduti in file al centro dell’enorme sala addobbata per l’occasione con decorazioni colorate. Le rispettive famiglie e i 112 monaci e monache del Villaggio dei Pruni – gli uomini da un lato, le donne dall’altro – sono riuniti attorno a loro. I religiosi, con il capo rasato che riluce sotto i fasci di luce elettrica, trasmettono un impressionante senso di gravità.

I dodici giovani, invece, hanno ancora i capelli lunghi. Indossano i loro vestiti migliori, soprattutto le ragazze, in abito lungo come spose. Il gong risuona tre volte e la comunità intona un canto solenne la cui melodia, curiosamente, è quella del Veni Creator, l’antico inno che un tempo si cantava in chiesa il giorno di Pentecoste.

Comincia così, la mattina del 5 maggio 2000, la cerimonia di ordinazione al Villaggio dei Pruni. La salmodia e la recita dei grandi testi sacri del buddhismo si alternano a lungo, poi il maestro Thich Nhat Hanh avanza.

Come tutti i monaci e le monache presenti, sopra la tunica marrone ha indossato l’abito arancione della cerimonia. Ciò che in lui colpisce immediatamente è la sua straordinaria presenza: mentre procede verso i futuri ordinati si ha la sensazione che ogni suo movimento sia una meditazione.

Si rivolge all’intera comunità giunta dalle tre frazioni del Villaggio dei Pruni e comincia a formulare le domande di rito:

«Tutta la comunità è presente?»

«Sì, tutta la comunità è presente.»

«La comunità è in armonia?»

«Sì, la comunità è in armonia.»

«Per quale motivo la comunità è oggi riunita?»

«Per procedere all’ordinazione dei postulanti.»

Adesso un’assistente legge i nomi dei dodici ragazzi e Thich Nhat Hanh chiede alla comunità se è d’accordo ad accettarli al suo interno. Se i membri acconsentono, non dovranno fare altro che tacere; se invece hanno delle obiezioni, questa è la loro ultima occasione per manifestarle. Per un attimo scende sull’assemblea un profondo silenzio.

Uno dopo l’altro, uscendo dalla propria fila, i dodici postulanti si inchinano quattro volte davanti a Thich Nhat Hanh, in segno di gratitudine per gli esseri viventi e per i minerali.

A questo punto avanza un altro assistente, portando una ciotola in cui è stata posta una rosa. Thay (1) – così Thich Nhat Hanh è chiamato dai suoi discepoli – impone le mani sulla testa dei postulanti e versa loro un po’ d’acqua sulla fronte, aiutandosi con la rosa. Rivolge poi ai giovani qualche domanda a bassa voce e taglia una ciocca di capelli a ognuno di loro. Intanto risuonano i gong, e tutta l’assemblea intona degli inni.

Quindi i dodici si prostrano tre volte e ricevono la loro tunica, quell’umile abito da monaco che terranno appoggiato sul capo durante il resto della cerimonia e che per tutta la vita sarà il loro unico vestito.

È giunto il momento più solenne, quello della pronuncia dei voti. Un assistente legge i Precetti del Buddha e domanda ai postulanti se si impegneranno a rispettarli per tutta la vita. Questi ripetono «sì», promettendo in questo modo di non uccidere, non rubare, osservare la castità, non cadere nella rete del consumismo, rinunciare ai cosmetici, ai gioielli, alle distrazioni del mondo e al lusso. Promettono inoltre di essere vegetariani e di non accumulare beni o denaro. Sono voti solenni e di un’estrema importanza, che coinvolgono tutta l’esistenza.

La cerimonia è finita. I gong e i tamburi accompagnano ora canti di gioia e di riconoscenza.

Il rito della tonsura avverrà poco più tardi, in privato. Alcune delle ragazze portavano dei magnifici capelli lunghi e colpisce, quando le ritroviamo all’ora del pasto, quanto risulti difficile, se non impossibile, riconoscerle. Quasi come se fossero già state sottratte al mondo, essendo la tonsura il momento che, nella tradizione, segna il passaggio dalla condizione laica alla vita religiosa.

Lo stesso giorno, nel pomeriggio. Una passerella di legno è sospesa su un laghetto in cui stanno fiorendo delle piante di loto. Ai nostri occhi si presenta uno spettacolo curioso: su una sporgenza, nelle immediate vicinanze della passerella, è stato adagiato un bambolotto, un vero bambolotto di celluloide simile a quelli di quando eravamo piccoli.

Esso rappresenta il Buddha appena nato, dal momento che, per procedere alle ordinazioni, è stato scelto l’anniversario della sua nascita. Al centro della passerella vi sono inoltre due grandi catini pieni di petali di rosa. Coloro che desiderano onorare il Buddha bambino devono avanzare da un lato e dall’altro della passerella, raccogliere i petali con un lungo mestolo di legno e con essi cospargere il capo del neonato. La folla è così numerosa che il rito occuperà gran parte del pomeriggio.

Per primo avanza Thay, lentamente e tenendo per mano due bambini. Il suo viso, così grave durante la cerimonia del mattino, si illumina ora di un sorriso talmente radioso che sembra sgorgare dal profondo dell’anima. Per Thich Nhat Hanh – avremo più di un’occasione per rendercene conto – i bambini sono una delle gioie più grandi.

Egli ama farli giocare e immergersi nei loro sguardi: non è dunque un caso che abbia passato gran parte della propria vita ad aiutarli, curarli, nutrirli e cercare di far dimenticare ai piccoli vietnamiti gli orrori conosciuti in guerra.

Ad amarli, semplicemente. Guardandolo procedere sereno con i bambini per mano, Rachel e io formuliamo nello stesso istante il medesimo pensiero: quest’uomo così austero e così fuori dal comune, che è stato un combattente e un saggio, autore di decine di commenti ai sutra del Buddha, insegnante di psicologia buddhista e maestro venerato in tutto il mondo da una moltitudine di discepoli, quest’uomo ha saputo rimanere un fanciullo. E non possiamo che pensare alle parole di Cristo: «Se non diventate come bambini…».

Ma chi è Thich Nhat Hanh? Difficile rispondere, vista la sua ritrosia a indugiare sulla propria biografia e a rilasciare interviste. Nel corso della sua vita egli ha sempre tenuto un diario personale di cui, però, ha autorizzato solo la pubblicazione del periodo compreso fra il 1962 e il 1966: L’arte del cammino e della pace (2) svela, con freschezza e poesia, le sue emozioni di giovane monaco e di militante alle prese con l’incomprensione della propria gerarchia e con gli orrori della guerra in Vietnam.

Nato nel 1926, Thay è stato ordinato monaco a soli 16 anni, ma era già animato da un tale desiderio di assoluto e di giustizia che ha cominciato molto presto ad avere delle difficoltà con le autorità buddhiste più conservatrici. Benché profondamente spirituale e mistico, Thich Nhat Hanh è sempre stato convinto che lo scopo del buddhismo non sia soltanto quello di aiutare i singoli individui a raggiungere l’illuminazione personale: secondo lui, il buddhismo deve essere impegnato.

Deve, cioè, possedere la forza di intervenire in tutti i grandi problemi che affliggono l’umanità. È senza dubbio un bene trovare la pace in se stessi, ma solo allo scopo ultimo di poterla diffondere nel mondo e di riuscire a opporsi pacificamente alla violenza. La missione di ogni religioso, dunque, deve essere la lotta contro l’ingiustizia, contro la povertà, l’analfabetismo e, ovviamente, contro la guerra.

Proprio per sfuggire ai conflitti che cominciavano a contrapporlo al buddhismo conservatore, Thay ha fondato nel 1962, ad appena 36 anni, il monastero di Phuong Boi (3), per il quale prova ancora oggi una forte nostalgia. Quando ne parla si direbbe che parli del paradiso perduto. Con alcuni dei suoi compagni più cari, egli ha dovuto lavorare sodo per rendere coltivabile un angolo di foresta su cui far sorgere il monastero.

I monaci hanno scelto di stabilirsi il più lontano possibile dalla civiltà, nel pieno centro del Vietnam, e per mantenersi si sono dedicati alla coltivazione del tè. Il monastero è divenuto una piccola isola di pace sugli altipiani dei Montagnard, in una foresta così fitta che capitava loro di incontrare anche qualche tigre.

Ma purtroppo il tè ha avuto appena il tempo di germogliare che la guerra li ha raggiunti. Quel rifugio, quel luogo di quiete, infastidiva tutti, i comunisti come l’esercito governativo. Thay e i suoi compagni hanno dovuto allora riparare a Saigon, e in seguito gli scontri hanno distrutto quasi completamente il monastero.

Nel suo diario, per evocare quella serenità perduta, Thich Nhat Hanh usa toni commoventi:

Improvvisamente – scrive durante un soggiorno negli Stati Uniti – ho pensato a Phuong Boi e il mio cuore si è riempito di nostalgia. Phuong Boi è scivolato fra le nostre dita. Rimpiango ogni cespuglio, ogni radura, ogni sentiero. Ma non perderemo mai Phuong Boi, è nei nostri cuori come una realtà benedetta. Ovunque siamo, il semplice fatto di sentire pronunciare il nome di Phuong Boi ci emoziona fino alle lacrime.

Lasciare il monastero è stata senza dubbio la decisione più difficile della sua vita, a maggior ragione perché nel Vietnam in guerra la situazione era estremamente delicata. Thay vedeva ogni giorno la miseria che affliggeva il suo popolo, i villaggi bombardati, il napalm, le innumerevoli atrocità commesse da entrambe le fazioni in guerra. Vedeva soffrire e morire i bambini mentre sentiva crescere nel suo animo un incontenibile desiderio di pace.

Era lacerato. I comunisti non lo vedevano di buon occhio perché buddhista, mentre i nazionalisti, come gli americani, non accettavano i suoi incessanti appelli per la pace. Di conseguenza, egli ha dovuto lasciare il Vietnam e si è recato negli Stati Uniti, dove ha insegnato Lingua e Cultura Vietnamita e Psicologia Buddhista presso la Columbia University e la Princeton University. Finché, nel 1963, i suoi compagni non lo hanno pregato di rientrare in patria per aiutarli a fermare la guerra.

Dal momento del suo rientro, Thay si è impegnato su tutti i fronti. Sapeva che i villaggi soffrivano terribilmente, che tante volte erano occupati dai nazionalisti di giorno e di notte dai comunisti. Conosceva la disperazione dei contadini, straziati nonostante non chiedessero altro che di coltivare tranquillamente le loro terre. Vedeva le loro case crollare sotto le bombe, i raccolti distrutti o confiscati, la miseria farsi sempre più crudele.

Ma non si è rassegnato, e nel 1964 ha creato la Scuola giovanile per il Servizio sociale attraverso la quale ha mandato monaci, monache e laici nei villaggi più esposti e più disperati. Qui i volontari hanno creato scuole e dispensari, e sono riusciti a conquistare l’affetto della popolazione vivendovi accanto e condividendone le condizioni.

Ed è questo, per Thay, il buddhismo impegnato. Egli è assolutamente convinto che in una situazione come quella che ha vissuto il Vietnam, il Buddha non si sarebbe accontentato di restarsene seduto in un tempio, in meditazione.

Se nei templi vi sono le sue statue è perché gli uomini ve le hanno portate, ma oggi come in ogni epoca il Buddha è a fianco di chi lotta per aiutare il prossimo, per salvare quello che può essere salvato e ricostruire quello che è stato distrutto.

Isolarsi in un tempio – scrive Thay nel suo diario – non ha alcun senso per chi vuole conoscere il Buddha. Chi si comporta in questo modo dimostra di non essere un vero discepolo del Buddha. Il Buddha è là dove qualcuno soffre.

La Scuola giovanile per il Servizio sociale che egli ha creato insieme a professori, studenti e religiosi, ha avuto un tale successo da arrivare a contare, alla fine della guerra, più di 10.000 volontari sparsi nei vari villaggi. Ma purtroppo il regime comunista ne proibirà l’attività, esattamente come farà con la casa editrice Boi Press di cui Thich Nhat Hanh è stato fondatore e animatore, oltre che uno degli autori.

In quel duro periodo, Thay si è adoperato senza sosta per il bene del suo paese. Quando un’inondazione ha devastato una valle, per salvare i superstiti egli ha lavorato con i piedi nel fango, insieme a numerosi volontari. E quando poi i boat people hanno cominciato a fuggire dal Vietnam, respinti da ogni paese e preda dei malviventi, ha organizzato i soccorsi, e a fianco di sorella Chan Khong non ha esitato a noleggiare tre imbarcazioni per raccogliere i naufraghi e trovare loro un rifugio.

Si è battuto contro l’indifferenza e contro la polizia che gettava in mare, perché affogassero, coloro che credevano di essere già in salvo. Gli è accaduto di essere respinto da Singapore con centinaia di rifugiati a bordo delle sue imbarcazioni, e di non sapere più dove andare. «Siamo stati cacciati come animali», scriverà. Ma nonostante tutti questi ostacoli, grazie alla sua forza di volontà Thay è riuscito ad allertare l’opinione pubblica internazionale e a salvare migliaia di vietnamiti.

Una volta finita la guerra, pur non potendo più entrare in Vietnam, egli ha inoltre trovato il modo di raccogliere del denaro per nutrire i bambini affamati, per aiutare gli orfani e per sostenere gli intellettuali dimenticati nelle carceri.

La guerra ha lasciato migliaia di orfani – scrive in Perché un futuro sia possibile (4) -.. Invece di costruire degli orfanotrofi, abbiamo cercato delle persone in Occidente che potessero sostenere economicamente i bambini. Abbiamo trovato nei villaggi vietnamiti delle famiglie pronte a prendersi cura di un orfano, poi abbiamo inviato loro sei dollari al mese per dargli da mangiare e mandarlo a scuola.

Ogni volta che è stato possibile, abbiamo cercato di sistemare il piccolo presso la famiglia di una zia, di uno zio o di un nonno. Quei sei dollari gli hanno permesso di mangiare, andare a scuola e aiutare anche gli altri. I bambini avevano il vantaggio di crescere in una famiglia. Crescere in orfanotrofio è un po’ come essere nell’esercito. È cercando di esercitare la generosità che potremo migliorare le cose.

Ma per Thich Nhat Hanh, la nostra compassione non deve andare solo alle vittime. I carnefici, infatti, ne meritano altrettanta.

Durante uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti, egli ha avuto occasione di incontrare alcuni veterani del Vietnam per cui ancora oggi organizza dei ritiri. In molti non sono mai riusciti a dimenticare, oltre alle atrocità subite, anche quelle che hanno dovuto commettere. Thay non scorderà mai quel graduato che aveva perso in una sola giornata 410 uomini della sua unità e che, da quel momento, non è più riuscito a liberarsi del proprio dolore. Un altro gli ha raccontato di come, dopo un sanguinoso combattimento, per vendicarsi degli abitanti di un villaggio lui e i suoi uomini avessero disposto per le strade di quel paese parecchie confezioni di dolci cariche di materiale esplosivo.

I bambini che le avevano raccolte erano stati dilaniati e quell’uomo non riusciva a cancellare dalla sua mente una simile tragedia. Vi erano veterani che avevano perso la facoltà di comunicare, altri che non potevano più alimentarsi normalmente.

Quei soldati, traumatizzati da ciò che la guerra li aveva portati a fare, hanno trovato grazie a Thay la pace che cercavano da tanti anni. Hanno compreso come anche i carnefici siano vittime di un sistema e di un concatenarsi di circostanze. Grazie a lui si sono sentiti compresi e perdonati. E tutto questo semplicemente imparando a mantenere la consapevolezza, a sorridere, riprendere contatto con la terra, mangiare in silenzio, guardare i fiori e la profondità di un cielo blu.

Ogni fazione è la nostra fazione – diceva loro –, non esiste quella del male. Voi veterani, grazie alla vostra esperienza, siete la fiamma sulla candela che illumina le radici della guerra e il cammino verso la pace.

È importante, per comprendere al meglio il buddhismo di Thich Nhat Hanh, parlare dell’opera da lui compiuta in seno alla società e dei problemi che ha dovuto affrontare. Perché, secondo Thay, l’azione virtuosa non può nascere che dalla profondità, dalla meditazione seduta o camminata e dalla consapevolezza di essere.

Note

1 Letteralmente «colui che istruisce».

2 Thich Nhat Hanh, L’arte del cammino e della pace, Mondadori, Milano 2004.

3 Letteralmente «foglie profumate di palma». È infatti su foglie di palma che, anticamente, sono stati trascritti gli insegnamenti del Buddha. Lo stesso titolo è stato ripreso nella prima traduzione del diario personale di Thich Nhat Hanh: Fragrant Palm Leaves (Parallax Press, Berkeley 1998), mentre nella traduzione italiana il riferimento si perde [N.d.T].

4 Thich Nhat Hanh, Perché un futuro sia possibile, Ubaldini, Roma 2000.

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Jean-Pierre e Rachel Cartier, Thich Nhat Hanh La felicità della Piena Consapevolezza, Lindau 2007, EAN 99788871806600

Il presente articolo è tratto dal libro Thich Nhat Hanh La felicità della Piena Consapevolezza di Jean-Pierre e Rachel Cartier – edito da. Lindau.www.lindau.it per gentile concessione.

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