L’imperturbabile redenzione dell’animo, intervista a Jack Kornfield
Jack Kornfield è stato monaco buddista in Thailandia, Birmania e India. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Studi Asiatici a Dartmouth, nel 1967 è andato in Thailandia con il Corpo dei Volontari della Pace, in cerca di un insegnante buddista. Al ritorno si è laureato in psicologia clinica ed è diventato terapista. Nel 1975 è stato il co-fondatore della Insight Meditation Society, con sede a Barre, nel Massachusetts, che ha molto influenzato la pratica della vipassana nel Nord America.
Nel 1986 ha fondato lo Spirit Rock Meditation Center di Woodacre, in California, dove insegna. Oggi vive vicino Spirit Rock con la famiglia e le sue occupazioni principali sono l’insegnamento e lo sviluppo del centro. Tra i suoi libri, ricordiamo Seeking the Heart of Wisdom, A Path with Hearth e Teachings of the Buddha, After the Ecstasy, the Laundry. Questa intervista si è svolta a Spirit Rock.
Helen Tworkov: Jack, i testi tradizionali parlano del cammino verso l’illuminazione, mentre tu, nel tuo nuovo libro After the Ecstasy, the Laundry, indaghi cosa avviene dopo la prima esperienza di illuminazione. Ciò nasce da un bisogno tutto occidentale di armonizzare il dharma con la psicologia?
Jack Kornfield: Non credo che la pratica del dharma e la psicologia siano contrapposte; la mia sensazione è che stiamo creando una falsa dicotomia. Il mio insegnante Ajahn Chah diceva spesso: “C’è la sofferenza, c’è la causa della sofferenza, e come insegna il Buddha nelle Quattro Nobili Verità, c’è la fine della sofferenza. Ovunque tu sia, quello è il luogo della pratica”. Talvolta la sofferenza giunge attraverso l’attaccamento a un certo dolore emotivo o a fatti particolari; talvolta, attraverso il non-riconoscimento del vuoto, dell’evanescenza della vita, del fatto che nulla può essere definito come io o mio. Lo scopo della pratica del dharma è prestare attenzione al punto in cui c’è sofferenza, scorgere l’attaccamento e l’identificazione, e lasciarli andare per trovare la libertà dell’animo.
Helen Tworkov: Ma in gran parte del buddismo tradizionale, portare l’attenzione sul dolore emotivo (e sulle vicende personali dietro di esso) viene considerata una pratica “altra” rispetto all’attività spirituale.
Jack Kornfield: Beh, spesso i tradizionali testi buddisti si concentrano sul raggiungimento della perfetta illuminazione e sul vivere in modo assolutamente puro e libero dopo di essa. Ma oggi non esistono molte persone che possiamo descrivere con queste parole, inclusi i grandi, rispettati a amati insegnanti come il Dalai Lama o il venerabile Mahahosananda, il Gandhi della Cambogia. Questi maestri contemporanei affermano: “Sto ancora lottando contro questo o quello, o queste sono le cose su cui sto lavorando oggi tramite la pratica”. Non parlano da uno spazio di libertà assoluta. Quindi, ai nostri tempi, anche i maestri più anziani si chiedono: “Come facciamo a vivere il dharma, a metterlo in pratica in modo continuo nella nostra vita quotidiana, e a non considerare più gli insegnamenti solo dal punto di vista archetipico o assoluto?”.
Helen Tworkov: Come descriveresti la tua prima formazione in Asia? Anche essa era di impostazione “archetipica”?
Jack Kornfield: Mi sento enormemente grato per la formazione ricevuta nei ritiri e nei monasteri delle foreste, e per il genere di iniziazione che ciò offriva. Sono riuscito a entrare in un mondo antico di 2500 anni, facendo esperienza delle pratiche austere e delle rinunce che lo caratterizzano. Quando sono arrivato per la prima volta nel monastero della foresta di Ajahn Chah, egli mi ha guardato e ha detto: «Spero che tu non abbiamo paura di soffrire». Ho risposto: «Cosa intendi per “paura di soffrire”?», e lui: «Ci sono due tipi di sofferenza: quella da cui scappi, che ti segue ovunque, e quella che affronti e sperimenti volontariamente, trovando così la libertà che il Buddha ha insegnato a tutti noi». Questa fu la sua frase di apertura.
Helen Tworkov: Ciò ti ha allontanato?
Jack Kornfield: Beh, lo disse con grande senso dell’umorismo; non c’era pesantezza. Egli portava la gente verso le esperienze difficili senza aumentare il loro senso di indegnità o peggiorare la loro scarsa autostima. Sapeva guidare le persone. Guardava gli studenti e diceva: “So che tu puoi fare questo”. Scorgeva quella che Thomas Merton chiamava la loro “bellezza segreta”, la loro natura di Buddha, e la incoraggiava, che è ciò che può fare un grande insegnante.
Helen Tworkov: Perché hai abbandonato la vita di monaco nella foresta?
Jack Kornfield: Dopo i miei primi cinque anni in Asia (ero ancora abbastanza giovane), ho compreso che non volevo restare un monaco celibe per tutta la vita. Il matrimonio, le relazioni e la vita nel mondo erano ancora importanti per me, quindi dissi al mio insegnante che volevo tornare indietro. Avevo la sensazione di aver imparato abbastanza sulla pratica dell’attenzione e della compassione; ora volevo vedere se riuscivo a vivere tutto ciò nella vita ordinaria, fuori dall’ambiente protetto del monastero. Non avevo intenzione di restare un immigrato in Asia per il resto della mia vita. Ero attirato dalla mia cultura.
Helen Tworkov: E quando sei tornato qui…?
Jack Kornfield: Il distacco favoloso e la grande gioia e beatitudine che avevo sperimentato per alcuni anni crollarono. Scoprii con orrore che molte nevrosi del passato erano rimaste ad aspettarmi, come vecchi abiti: i litigi con la mia ragazza, la preoccupazione per i soldi. Quindi mi sono dovuto chiedere: “OK, ora come vivi la tua pratica? Come la integri?”. Questa era diventata la domanda urgente. Ho scoperto così che avevo usato la spiritualità per rimuovere o aggirare molte aree dolorose della mia vita. Tutte quelle cose non finite fecero ritorno. Avevo passato otto o dieci anni a studiare e praticare il dharma, cominciando nel college.
Avevo lavorato soprattutto con la mia mente, attraverso la concentrazione e l’ardore, ma ora era emerso tutto questo lavoro emozionale. Ho dovuto davvero imparare a portare i principi dell’attenzione e della compassione nel dolore e nelle nevrosi della mia vita. E a trasformarli in qualche modo. Questo l’ho fatto con la meditazione, mettendo l’accento soprattutto sulla gentilezza amorevole e la compassione; l’ho fatto con la psicoterapia, specialmente con quella basata sul corpo e il respiro; e l’ho fatto imparando gradualmente a essere più consapevole nelle relazioni, che è una pratica straordinaria che non si impara nei monasteri.
Helen Tworkov: Quali effetti ha avuto tutto ciò sui tuoi insegnamenti?
Jack Kornfield: Probabilmente il cambiamento più grande è stato il passaggio dalla lotta contro se stessi, simboleggiata in Asia dall’immagine del guerriero (un tipo di pratica che ho trovato nel monastero ascetico della foresta), a un modello basato sul fondamento della compassione e della guarigione. E questo è avvenuto perché nei primi ritiri che abbiamo tenuto in questo Paese noi insegnanti abbiamo trovato tra gli studenti una quantità impressionante di odio e giudizio verso se stessi. Abbiamo visto che gli studenti prendevano l’insegnamento del dharma sulla purificazione – che parla della libertà dall’avidità, dall’odio e dall’illusione – e lo usavano per giudicarsi, per rinforzare il senso di inadeguatezza o per creare ambizioni spirituali (cioè quelle che Chogyam Trungpa definiva il “materialismo spirituale”).
Stavano provando, in qualche modo, a negare ciò che erano, e così non facevano che soffrire di più. Diventava sempre più evidente che l’archetipo del guerriero sul campo di battaglia non si addiceva a queste persone, le cui ferite più dolorose erano l’odio e il giudizio verso di sé. Quindi, la forma della pratica è passata dalla lotta contro l’io al lasciarsi andare, imparando ad avere per se stessi e gli altri un atteggiamento di compassione e di gentilezza amorevole.
Helen Tworkov: Senza la dura iniziazione dell’asceta o del guerriero, il cammino può ispirare lo stesso livello di impegno e motivazione?
Jack Kornfield: La pratica del dharma è un’attività rivoluzionaria; non è possibile evitare i disagi. Devi davvero mettere in discussione tutta l’identità della tua vita. Ma l’impegno richiesto non è necessariamente quello volto a eliminare le impurità del corpo e della mente, o a lottare contro le macchie dell’avidità, dell’odio e dell’illusione (le corruzioni interiori), anche se questo linguaggio è molto comune tra i seguaci del Theravada, del buddismo tibetano e di quello zen. L’impegno necessario è il coraggio del cuore di restare aperto e privo di difese per sperimentare le diecimila gioie e dolori della nostra compassione, lo spazio più profondo del nostro essere. Questo è un tipo di coraggio diverso, che richiede altrettanto (se non più) ardore e passione.
Helen Tworkov: Pensi che gli studenti occidentali tendano a cercare una sorta di agio che pregiudica quel carattere rivoluzionario di cui stai parlando?
Jack Kornfield: Sì. Uno dei pericoli del successo del dharma è l’agio. Man mano che gli insegnamenti si diffondono, diventano sempre più rassicuranti. I praticanti sono diventati più ricchi, e se a questo unisci l’enfasi maggiore sulla compassione anziché sull’ascesi del guerriero, c’è il rischio di perdere quell’impegno profondo che è necessario per la trasformazione rivoluzionaria.
Helen Tworkov: Non c’è un modo di impedire questo?
Jack Kornfield: Beh, la compiacenza è sempre contrastata dall’integrità, che è un amore costante della verità e il desiderio di viverla. Se gli insegnanti non dimenticano questa eredità del Buddha, anche negli studenti si risveglierà quella parte che “conosce la verità”. Anche essi riconosceranno che la liberazione è il nostro diritto di nascita, la nostra vera natura.
Helen Tworkov: Una preoccupazione condivisa da molti insegnanti americani è che provocando gli studenti allo stesso modo con cui gli insegnanti asiatici hanno provocato loro (nell’ambito di una tecnica di insegnamento deliberatamente volta a creare disagio), gli studenti se ne andranno.
Jack Kornfield: Qui le condizioni per la relazione studente/discepolo sono diverse. Se gli insegnanti occidentali trattassero gli studenti con la stessa deliberata durezza e severità con cui Marpa istruì Milarepa nella famosa storia tibetana, probabilmente incapperebbero nelle nevrosi americane dell’odio e del giudizio verso di sé, e gli studenti si allontanerebbero o li querelerebbero. Comunque, l’indispensabile trasformazione dello studente può sempre avvenire focalizzandosi più sulle forme della pratica che sulla relazione insegnante/studente.
La durezza delle “sesshin” zen, delle 100.000 prostrazioni tibetane o di un ritiro silenzioso di tre mesi di vipassana è ottima per mettere alla prova i praticanti. Quando la gente viene da me durante un ritiro di due o tre mesi, piangendo di paura per i demoni che sono venuti fuori, posso essere molto duro e dire: “Ora, in questo spazio, puoi scoprire la tua libertà, oppure puoi essere un codardo e scappare. È arrivato il momento. Non mi interessa se muori; domani faremo il tuo funerale.
Puoi dirmi se preferisci essere cremato o sepolto, ma torna a sederti e affronta quei demoni”. Usando accortamente le forme della pratica buddista, non aumentiamo la nostra sofferenza, bensì accresciamo il nostro potere e raggiungiamo un certo grado di libertà. Poiché queste forme si basano sulla verità secondo cui tutti i nostri demoni sono vuoti, possono aiutarci a lasciarci andare, a trascendere il piccolo senso dell’io per scoprire la nostra libertà innata.
Helen Tworkov: E i tuoi studenti non ti raccontano i loro fatti personali?
Jack Kornfield: Talvolta è necessario raccontare qualcosa a un’altra persona per accettarlo o liberarsi di esso. Ma di solito qualche accenno è sufficiente; non occorre tirare fuori tutto il nostro passato. Qualcuno può dire che le persone soffrono a causa del loro passato, e ogni tanto passiamo un po’ di tempo a chiedere, beh, quali sono le loro convinzioni, paure, ricordi e immagini. Ma lavoriamo sempre con la domanda fondamentale: questo è ciò che sei realmente? Il nostro scopo non è risolvere situazioni o ricordare il passato per rielaborarlo. Il vero lavoro interiore consiste nello sperimentare la contrazione della paura, in questo istante, scoprendo che questa non è la nostra vera natura, non è ciò che siamo. Conoscere ciò che è successo non lo risolve. Quello che crea libertà è affrontare la radice della sofferenza e l’identità costruita intorno a essa, andando direttamente al suo centro fino a raggiungere il vuoto. E una buona psicoterapia deve fare la stessa cosa della pratica del dharma, perché è così che accade la liberazione.
Helen Tworkov: Il terapista non deve mettere di più l’accento sulla decostruzione delle storie o su una spiegazione che aiuti a liberare la sofferenza?
Jack Kornfield: Non necessariamente. Lasciami fare un esempio. Una volta venne da me una praticante molto afflitta perché il marito l’aveva appena lasciata. Avevano un figlio di quattro anni e la donna aveva sognato un bellissimo matrimonio d’amore, ma questo si era spezzato. Il suo dolore era accresciuto dal fatto che, quando aveva tre anni, suo padre se n’era andato e non era mai più tornato. Quando lui l’aveva abbandonata, lei da qualche parte dentro di sé era arrivata alla conclusione che gli uomini erano inaffidabili e che lei non era degna di essere amata. Quindi, abbiamo cominciato lavorando sulla consapevolezza.
L’intento era quello di affrontare il suo dolore con compassione, non per farlo cessare, ma per accettarlo tramite la consapevolezza e la compassione. Lei ha pianto e ha raccontato la sua storia. Dopo un bel po’ di lavoro, sembrava giunto il momento di tornare al nucleo del dolore primario che portava dentro di sé. Quindi le ho chiesto di chiudere gli occhi, e attraverso la meditazione della visualizzazione è tornata all’età di tre anni, quando in cima alle scale stava guardando suo padre con una valigia in mano che usciva dalla porta per non fare più ritorno. Immediatamente ha provato dolore e panico, per lei questo era spaventoso, e mi sono fatto raccontare cosa provava nel suo corpo di tre anni, spingendola a lasciare spazio per tutto ciò, con attenzione e compassione.
Poi ho detto: «Guarda se riesci a spostare la tua consapevolezza ed entrare nel corpo di tuo padre. Dimmi come lo senti». Lei lo fece e disse: «È rigido. Sono pieno di dolore, rabbia e sofferenza. Ma più che altro mi sento disperato». Ho chiesto: «Perché te ne stai andando?». Lei ha continuato: «Sono in trappola. Il mio matrimonio è terribile e sto perdendo la mia vita, sto morendo. Voglio avere una vita e sento che il mio matrimonio è così difficile che un giorno in più mi ucciderà. Voglio andarmene da qui per sopravvivere». Riuscì a sentire la rigidità e la disperazione. Ho detto: «Sai che tua figlia è in cima alle scale e ti sta guardando?». «Sì, lo so.» «E perché vuoi abbandonarla? Perché non dici nulla?» «Perché l’amo tanto che se la guardassi anche solo per un momento non riuscirei più ad andarmene di casa. Ma non posso restare; morirei.
Ho sposato la donna sbagliata. È orribile. Quindi devo tenere gli occhi in basso, digrignare i denti e uscire da quella porta per sopravvivere.» È rimasta in silenzio per un attimo, stordita, e ho detto: «Ottimo. Adesso torna indietro e sii di nuovo quella piccola bambina che sta guardando». Lei lo vede partire. Cosa sta dicendo a se stessa? «Se ne sta andando perché non mi ama. E poiché mio padre non mi ama, non posso essere amata. C’è qualcosa di sbagliato in me». Le ho chiesto: «Chi ha creato questa storia?».
Come stupita, mi ha risposto: «Io». «Bene», ho risposto, «è questo che sei davvero?». Ahhhh. In quel momento ci fu una realizzazione del vuoto: “Io non sono questo”. In seguito, l’ho fatta diventare sua madre che, piena di rabbia e paura, pelava le carote in cucina mentre il marito se ne andava. Sentendo la rabbia e l’ansia di sua madre, provò molta più comprensione verso di lei. Alla fine, tornò di nuovo una bambina piccola e disse: «Ora posso vedere quanto dolore c’era. Poiché ero una bambina di tre anni, mi è stato chiesto di sopportarlo senza capirlo». Gli ho chiesto: «Riesci a vedere come da tutto ciò hai sviluppato un io che non è la tua vera identità?».
E da quel momento in lei le cose cominciarono a cambiare: aveva visto la sua vita dal punto di vista di “colui che sa”, come diceva Ajahn Chah. Non le ho impartito degli insegnamenti sul vuoto e l’assenza dell’io, né le ho fatto fare una speciale meditazione buddista. Ma quando il lavoro interiore ha radici nella comprensione del vuoto, ci spostiamo dal “corpo della paura” alla libertà innata. È estremamente naturale. Quando lavoro con la gente, il fondamento è il vuoto. Dico loro: “Chi sei? Quali sono le possibilità nella tua vita di diventare veramente libero?”. Non si tratta semplicemente di cambiare la trama della storia, ma di lasciare andare tutto ciò cui ci aggrappiamo, in quanto falso io. In tal modo, la parte migliore della psicoterapia, improntata a una concezione spirituale, può essere una sorta di meditazione.
Helen Tworkov: Una volta applicati i fondamentali principi buddisti del vuoto e del “non-io” a qualcosa di socialmente accettabile come la psicoterapia, cosa accade alla natura “radicale” del dharma?
Jack Kornfield: Praticare il dharma vuol dire nuotare controcorrente nella società. Persino in Asia c’è una certa verità in questo. È necessario che i nostri valori fondamentali non siano più l’attaccamento alla sicurezza, l’avidità dei soldi o il desiderio di successo mondano, ma la trasformazione del cuore. Ogni giorno la gente arriva nei centri di ritiro buddista portando un’enorme quantità di tensioni, preoccupazioni e difficoltà frutto della vita nella moderna società consumista, dicendo: “Aiuto, aiuto, aiuto. Come può aiutarmi la pratica del dharma?”.
Una prima risposta è che devono cominciare a cambiare la propria vita! L’insegnamento del dharma non dice semplicemente: “Cambia il modo in cui vedi il mondo”, anche se questo è uno degli aspetti della liberazione. Esso ti chiede di abbandonare e cambiare il tuo atteggiamento, il modo in cui vivi. Il Buddha non ha scelto di vivere nel mercato di Benares; ha vissuto in modo semplice nella foresta. Ma anche per i seguaci laici che vivevano nelle città, il Buddha sottolineava che per liberare il cuore occorre agire con eticità e generosità: questo è il fondamento da cui si sviluppa la pratica del dharma. Non puoi meditare dopo un giorno di furti e omicidi; semplicemente, non funziona. A un altro livello, se la tua vita è piena di difficoltà stressanti e sei alla ricerca della pace e dell’armonia, dovrai certamente cambiare il tuo spirito interiore, ma forse anche il modo in cui vivi. La libertà si conquista vedendo la verità e imparando a metterla in atto in ogni parte della nostra vita. Non è solo una parola vuota.
Ricordo di essere andato a un convegno di psicologi, molti anni fa, e di aver tenuto una conferenza sul modo in cui insegno l’etica ai miei clienti. Nella psicoterapia tradizionale questa era una cosa radicale. In quanto psicoterapeuta, ci si aspetta che non esprimi giudizi. Se qualcuno ti racconta di avere una relazione amorosa dietro l’altra, si suppone che non lo giudichi. Ma io ho detto che questo è ridicolo. Se qualcuno mi racconta che ha una relazione dietro l’altra o che prende soldi dalla cassa, anche se ascolto con comprensione e cerco di capire il dolore che lo spinge ad agire cosi, gli ricordo che esistono degli insegnamenti spirituali universali (buddisti, musulmani, cristiani) secondo i quali se rubi, uccidi o menti, creerai inevitabilmente dei modelli di sofferenza. Stai facendo le cose che creano sofferenza. Non ti dirò cosa devi fare, ma voglio farti conoscere le leggi della vita, in modo che potrai essere la saggia guida di te stesso.
Gli occhi di alcuni si sono spalancati: «Vuoi dire che insegni questo?», «Certo», ho risposto; «non dobbiamo forse aiutare queste persone?». Questi confini tra la verità spirituale e la vita convenzionale mi sembrano, in un certo modo, molto artificiali. Nei miei insegnamenti, quella che mi interessa di più è la possibilità della liberazione, che in uno dei nostri testi è definita come “l’imperturbabile redenzione dell’animo”. Questo vuol dire che è possibile essere liberi e che la libertà non si trova nella trascendenza o nell’abbandono del mondo, ma qui e ora, in questo stesso momento. Quello che i miei insegnanti hanno dimostrato in modo meraviglioso è stato che persino nella terribile situazione della Thailandia, della Cambogia e della Birmania il loro animo era libero e aperto, e la loro compassione pareva senza confini.
Helen Tworkov: E in occidente, pensi che dovremmo cercare di realizzare un’integrazione tra il dharma e la psicologia?
Jack Kornfield: Non sono sicuro che abbiamo bisogno di un’integrazione tra la psicologia e il dharma. Semplicemente, sento che il dharma, per restare efficace al giorno d’oggi, deve includere l’attenzione alla vita personale e a quelle carenze emozionali che sono comuni nella nostra società. Deve portare i “mezzi abili” della consapevolezza e della compassione in queste aree, che non sono (e non sono mai state) al centro dell’attenzione nei monasteri asiatici. Questo è tutto. Naturalmente, allo stesso modo, dobbiamo includere nel nostro dharma l’attenzione verso la devastazione ecologica, il razzismo strisciante e la ingiustizie perpetrate dalla nostra cultura materialista… Ma questo è un altro discorso. La buona notizia è che il Buddha ci invita a raggiungere la liberazione sempre nel qui e ora. Qualunque siano le circostanze della nostra vita.
Dopo l’estasi, fare il bucato
Un brano da After the Ecstasy, The Laundry di Jack Kornfield.
Ajahn Buddhadasa, il cui monastero copre una grande foresta nella penisola malese, invitò i suoi studenti a sedersi con lui alla fresca ombra degli alberi. Quindi, ritenne doveroso dire agli studenti di cercare il Nirvana nel modo più semplice possibile, nella vita di tutti i giorni. “Il Nirvana”, disse, “è l’abbandono tranquillo, il piacere spontaneo che si sperimenta quando non esiste attaccamento o resistenza alla vita”.
Ognuno può vedere che se l’attaccamento e l’avversione fossero con noi tutto il giorno e la notte, non riusciremmo a sopportarli. Se così stessero le cose, gli esseri viventi morirebbero o impazzirebbero. Invece sopravviviamo perché ci sono dei periodi naturali di calma, integrità e serenità. In realtà, questi ultimi durano di più dei fuochi dell’attaccamento e della paura. È questo che ci sostiene. Abbiamo periodi di riposo che ci ristorano e ci fanno sentire bene. Perché non ci sentiamo grati per questo Nirvana quotidiano?
Sappiamo già come lasciarci andare: lo facciamo tutte le notti quando andiamo a letto, e questo lasciarci andare è delizioso come un buon sonno. Aprendoci in questo modo, possiamo vivere nella nostra integrità. Lasciandoci andare un poco, sperimenteremo una pace limitata; lasciandoci andare un po’ di più, sperimenteremo una pace maggiore. Entrando nella porta senza porta, cominciamo a fare tesoro dei momenti di integrità. Cominciamo ad avere fiducia nel ritmo naturale del mondo, così come abbiamo fiducia nel sonno e nel respiro che procede da solo.
In un ritiro, uno psicologo e guaritore che aveva dedicato quindici anni alla pratica spirituale non aveva ancora risolto il tema delle relazioni. Desideri, brame e sensi di colpa continuavano a trattenerlo. Dopo una conversazione, ho suggerito che per qualche giorno praticasse la meditazione della gentilezza amorevole verso di sé. All’inizio ha fatto resistenza; come molti di noi, si sentiva a disagio nel concentrarsi su di sé. Era imbarazzante offrire a se stessi amore e gentilezza per molti giorni. Ma con il progredire del ritiro, il suo cuore si è addolcito, lasciando spazio al perdono per sé e gli altri.
Il mondo cominciò a sembrare più bello. E poi giunse una comprensione: “Sono io che devo amarmi. Nessun altro può farmi sentire integro. Solo io posso fornire quell’amore. Adesso so che questa integrità è sempre accessibile a me e a tutti gli altri esseri, ovunque. Questa coscienza mi permette di essere sereno e gentile con me stesso e gli altri. Nel modo più semplice, ha cambiato tutta la mia vita”.
Anche qui, la pratica spirituale non consiste nell’accumulare conoscenze, ma nell’imparare ad amare. Siamo capaci di amare quanto ci viene dato, in mezzo a tutte le difficoltà? Siamo capaci di amare noi stessi e gli altri? Siamo in grado di vedere davvero la luce offerta dal sole tutte le mattine? Se non ne siamo capaci, cosa dobbiamo fare nel corpo, nel cuore e nella mente per riuscire ad aprirci, a lasciarci andare, a riposare nella nostra perfezione naturale? La porta è aperta, quello che cerchiamo è davanti a noi. È così oggi e tutti i giorni.
L’insegnante di meditazione Larry Rosenberg praticava in Corea con il maestro zen Seung Sahn. Una volta, fece un pellegrinaggio verso altri templi e maestri; in una strada remota si imbatté in un tempio buddista, o stupa, particolarmente elegante, ai piedi di una montagna. Accanto c’era un segnale indicatore che diceva: “Per il Buddha più bello di tutta la Corea”, con una freccia che indicava un sentiero che si inerpicava sulla montagna attraverso migliaia di gradini. Larry decise di salire, un gradino dopo l’altro, fino alla cima. Lassù, la vista toglieva il fiato in ogni direzione. La semplice pagoda zen era pari per eleganza a quella sottostante. Ma al posto del Buddha, sull’altare non c’era niente, solo uno spazio vuoto e la splendida vista sulle verdi colline sottostanti. Avvicinandosi, vide accanto all’altare vuoto una targa con scritto: “Se non riesci a vedere il Buddha qui, è meglio che torni giù e pratichi un po’ di più”.
Tratto da After the Ecstasy, The Laundry: How the Heart Grows Wise on the Spiritual Path, di Jack Kornfield
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