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buddha3.jpgChiunque studi la mente ben presto si imbatte in una fondamentale tensione fra le descrizioni dell’attività cognitiva in prima persona e quelle in terza persona. Da un lato abbiamo un chilo e mezzo di materia grigia che si è sviluppata in cima a una colonna vertebrale post-scimmiesca – una massa di carne di cui si possono tracciare mappe, in cui si possono inserire elettrodi e il cui funzionamento si può modificare chimicamente.

Dall’altro abbiamo il nostro flusso di impressioni, pensieri, sensazioni e ricordi, un flusso di coscienza che può comprendere anche pensieri come “il flusso di coscienza è un’illusione”. Come possiamo integrare questi due mondi? Ha senso tentare di farlo?

Famosi studiosi del cervello come Daniel Dennett e Paul e Patricia Churchland sono riluttanti ad attribuire all’interno della coscienza o dell’esperienza un sostanziale peso esplicativo e ritengono che descrizioni oggettive della coscienza siano di gran lunga più utili per capire come la mente effettivamente funziona. Essi sostengono che, benché la soggettività eserciti un innegabile richiamo intuitivo, la nostra esperienza è inattendibile come fonte di informazioni: è un pantano di illusioni e miti che oscurano la ricerca di una descrizione della realtà.

Al contrario il celebre neuroscienziato Francisco Varela sostiene nel suo libro La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, scritto nel 1991 in collaborazione con Evan Thompson ed Eleanor Rosch, che l’esperienza è una componente irriducibile dello studio della mente. “Negare la verità della nostra propria esperienza nello studio scientifico di noi stessi non è solo insoddisfacente, bensì dissolve l’argomento stesso che ci proponiamo di studiare.”

Varela e collaboratori ritengono che, mentre la scienza cognitiva continua a scavare nei fondamenti materiali della conoscenza, è importante che ai modelli che risultano da questo studio faccia da contrappeso una “disciplinata e trasformativa analisi” dell’esperienza stessa: analisi rappresentata, nel loro caso, dalla meditazione e dalla filosofia buddista. Serio studente di Chogyam Trungpa, nonché organizzatore di vari incontri istituzionali fra il Dalai Lama e scienziati occidentali, Varela ritiene che il buddismo possa offrire un raffinato strumento introspettivo che l’Occidente ha finora ignorato.

La presenza del dharma in una ricerca di scienza cognitiva non dovrebbe del tutto sorprenderci. Da oltre un secolo il buddismo è visto da molti occidentali come una religione ‘scientifica’ – anche se molte divinità e molti rituali popolari devono essere accantonati se si vuole far quadrare questa immagine, per non parlare della dottrina della reincarnazione. Ma l’idea di fondo è sensata.

Non vincolati dalla credenza in un Dio creatore e in un’anima eterna, il Buddha e i suoi primi seguaci si servirono della meditazione come di un microscopio psicologico, per esaminare e decostruire la nostra abituale certezza dell’esistenza di un “io” in prima persona. Uno dei primi testi buddisti, il cosiddetto Abhidharma, la cui stesura finale risale al 400 della nostra era, distrugge le rassicuranti forme della coscienza ordinaria riducendole a un monotono catalogo di fattori mentali e sensoriali: un approccio che ci potremmo aspettare solo da un filosofo cognitivo amante delle descrizioni oggettive in terza persona.

Da parte loro, gli antichi yogi e sapienti buddisti avrebbero probabilmente apprezzato il recente Zen and the Brain, un massiccio volume di 800 pagine scritto dal neurologo James Austin. Con straordinaria intelligenza e apertura di spirito Austin esplora la connessione fra neurofisiologia e nucleo esperienziale della pratica Zen. Di professione ricercatore sperimentale, piuttosto che teorico della conoscenza, Austin evita le astrazioni basate sulla filosofia del cervello e offre invece un’abbondanza di informazioni dettagliate. Riassumendo una quantità di materiale enorme in fatto di ricerche sul cervello e in particolare sugli stati alterati di coscienza e sulla meditazione, Zen and the Brain si regge su solide fondamenta.

La teoria basilare di Austin è che quegli occasionali momenti di chiarezza intuitiva che sono detti nello Zen kensho o satori corrispondano a una sorta di ‘riavvio’ (re-boot) del cervello che dissolve strutture mentali abituali e ammuffite (particolarmente strutture centrate sulle idee ‘io, me , mio’) e ne ricostruisce altre più elastiche, più ricettive e più compassionevoli. A questo proposito Austin fornisce una serie di esplicite ipotesi verificabili – pur ammettendo che lo studio sperimentale di meditatori avanzati presenta delle difficoltà. “Può essere molto difficile praticare in maniera autentica in mezzo a tutti quei fili, tubi ed elettrodi,” dice Austin, attualmente in pensione, in precedenza ricercatore presso l’Università del Colorado. “D’altro canto, per un praticante evoluto questo non dovrebbe avere importanza.”

Oltre a fornire più informazioni sul cervello di quante la maggior parte dei cervelli siano in grado di assimilare, Austin condisce l’esposizione con pensieri e racconti tratti dal suo quarto di secolo di pratica dello Zen. “Noi occidentali arriviamo alla religione da una prospettiva giudeo-cristiana, che in genere significa un sacco di pensieri, dottrine e dogmi,” dice Austin. “L’approccio Zen è più come imparare ad andare in bicicletta che come seguire un corso di astrofisica.

Vuol dire mettere il sedere su un cuscino, fidarsi del proprio corpo e lasciarsi andare.” Tuttavia Austin va controcorrente rispetto alle tradizioni della letteratura Zen nel fornire esplicite e metodiche descrizioni delle sue visioni e dei suoi sconvolgenti risvegli. Spassionati e scintillanti di spirito, questi resoconti fanno di Zen and the Brain un’autobiografia spirituale per il ventunesimo secolo. Come dice lo stesso Austin: “Nel prossimo millennio saremo tutti in una certa misura neurobiologi.”

Quando tiene conferenze sulle tematiche di Zen e cervello, Austin a volte proietta delle diapositive di antiche statue di Buddha. Molte di queste statue hanno sulla testa una strana protuberanza, che solitamente è vista come uno chignon, ma che per Austin rappresenta un simbolo di accresciuti poteri cerebrali. “Io la leggo come metafora di un’espansione delle facoltà mentali,” dice. “Ma queste nuove capacità non sono più magiche del fatto che il cervello dell’Homo sapiens è più grande, più convoluto e più efficiente di quello dell’uomo di Neanderthal. L’evoluzione biologica del cervello è un fatto – e spero che fra altri 200.000 anni avremo un Homo sapiens sapiens.”

Malgrado l’enorme opera realizzata con il libro Zen and the Brain, Austin rimpiange di non avere cominciato la sua pratica buddista più precocemente. Christopher deCharms, un neuroscienziato cognitivo che lavora attualmente al Keck Center for Integrative Neuroscience dell’Università di California a San Francisco, è stato forse più fortunato in questo senso.

Dopo aver studiato filosofia asiatica, deCharms soggiornò per qualche tempo in un monastero tibetano in India prima di cominciare la graduate school in neuroscienza. A due anni dall’inizio degli studi di dottorato ottenne una borsa di studio della National Science Foundation per recarsi a Dharamsala a studiare le teorie tibetane della mente – una scelta molto poco ortodossa per un giovane rampollo dell’élite degli studi sul cervello. “Nel mio dipartimento nessuno si espresse positivamente sulla mia partenza, e alcuni furono molto negativi” dice deCharms, che pratica anche la meditazione vipassana nello stile dello Sri lanka. “Partii quasi scavalcando dei cadaveri.”

A Dharamsala deCharms si accorse che i lama tibetani e lui potevano scambiarsi informazioni preziose. “Io potevo descrivere loro le micrografie elettroniche di cammini e connessioni neurali nel cervello. E loro avevano un ricco ed elaborato catalogo di varie esperienze interne che si possono incontrare nella meditazione.” Furono illuminazioni reciproche di questo genere a convincere deCharms che questi dialoghi possono essere utili sia agli scienziati occidentali sia ai buddisti. “È molto stimolante intellettualmente confrontare la visione della mente che uno propone non solo con delle controproposte estremamente simili, ma anche con un modo di pensare completamente diverso. Suscita domande di un genere nuovo, domande di cui in precedenza non sospettavamo neppure l’esistenza.”

Le domande (e alcune risposte) di deCharms diedero origine a un libro, Two Views of Mind. Raccolta di interviste e di discussioni abbastanza esoteriche sulla scienza e la filosofia della percezione, il libro si sforza di evitare la superficialità che avvelena molti progetti di fecondazione incrociata fra scienza e pensiero orientale. “È facile confrontare il linguaggio della scienza e quello di alcune tradizioni orientali e dire: ‘Perdinci, si assomigliano’. Questo non rende giustizia né all’una né all’altra tradizione. La tradizione meditativa parla di cose che sono state direttamente percepite da uno yogi in contemplazione. Questo è molto diverso dal risultato di una misura su un oscilloscopio in laboratorio.”

Le ricerche tibetane di deCharms, giungendo a uno stadio tanto precoce della sua formazione, hanno trasformato il suo atteggiamento come scienziato, allargando il suo modo di vedere alcune tematiche che i suoi colleghi continuano a considerare in una prospettiva molto più ristretta. Tuttavia le ironie dei colleghi gli hanno insegnato a non insistere nel cercare di far leggere loro il suo libro, che è stato pubblicato da una casa editrice buddista.

DeCharms attribuisce questa resistenza in gran parte a un radicato scetticismo, in qualche caso al peccato più grave di arrogante ignoranza. “Credo che la resistenza principale sia semplicemente parrocchialismo. Al giorno d’oggi tutti sono presi dal vortice della specializzazione. Se vai da uno e gli dici, ‘Ascolta, c’è questo libro interessante che confronta la neuroscienza con il buddismo tibetano’, ti risponde: ‘Sì, va bene, solo che ho qui questo mucchio alto un metro di articoli sui recettori della sostanza P nel midollo spinale’.”

I neurofisiologi hanno buoni motivi per continuare a sfogliare febbrilmente le loro riviste tecniche. Secondo Bill Press, un meditatore Zen che occupa attualmente una posizione di ricercatore nel dipartimento di psicologia a Stanford, “la nostra base di conoscenze neuroscientifiche attuali non è tale da consentirci di dire un gran che di intelligente.”

Benché Press studi l’elaborazione degli stimoli visivi nella corteccia cerebrale umana, uno dei campi delle scienze cognitive più largamente analizzato, è molto prudente nel descrivere i risultati ottenuti dalla sua disciplina: “La nostra comprensione del cervello è tanto rudimentale che siamo appena in grado di descrivere come i segnali si trasformino passando dalla retina ai primi stadi della corteccia visiva – lasciamo perdere cosa succede durante un’esperienza di illuminazione.”

In quanto praticante Zen, Press si domanda se la scienza abbia veramente qualcosa da offrire nel momento in cui uno si siede sul cuscino da meditazione. “Come rompicapo intellettuale è una domanda carina, in che rapporto il cervello sta con la meditazione. Ma credo che quando si uno si dedica alla pratica della meditazione è facile utilizzare il cercare di capire come distrazione. Nel dharma si usa l’immagine del dito che indica la luna: se vuoi guardare la luna, guarda la luna, non fissarti sul dito.”

Altri praticanti del dharma con una lunga esperienza alle spalle sono di diverso avviso. Wes Nisker, responsabile della rivista buddista Inquiring Mind e noto insegnante di meditazione vipassana, ha recentemente pubblicato un libro intitolato Buddha’s Nature, che integra concetti darwiniani e neuroscientifici nella pratica della meditazione. “A Buddha non interessava tanto la coscienza cosmica quanto la coscienza biologica,” dice Nisker. “Buddha diceva: vai dentro e osserva come accade la percezione, osserva come funziona la tua mente reattiva.

I risultati delle scienze biologiche forniscono un grande sostegno alla pratica dell’autoconsapevolezza e della liberazione. Le verità fondamentali che emergono dalla neuroscienza e dalla biologia sono accessibili nella nostra esperienza diretta.”

Uno dei punti forti di Nisker è il fatto che una prospettiva evoluzionista possa aiutarci a liberare l’attenzione dai nostri condizionamenti personali per concentrarla sui nostri condizionamenti come specie. “Nella nostra cultura siamo ossessionati dallo psicologismo. Ma chi siamo e come ci comportiamo dipende molto più dalla struttura del nostro cervello e del nostro sistema nervoso che da come ci è stato insegnato a usare il vasino da piccoli.” Quando Nisker tiene weekends di meditazione, spesso parla di neuroscienza precisamente per questa ragione.

Trova che questa tattica è particolarmente d’aiuto con i principianti, che non sono molto sensibili al tradizionale discorso buddista. “Li aiuta a spersonalizzare quello che passa loro per la mente. Quei pensieri non sono veramente loro: semplicemente la mente è fatta in questo modo. La mente è fatta per preoccuparsi e far sì che l’organismo sopravviva.”

In senso ultimo, la pratica introspettiva che Nisker insegna può portare a fare esperienza personale di una delle percezioni fondamentali del buddismo: il sé che crediamo di essere, quel sé che coccoliamo, vantiamo e per cui ci preoccupiamo, essenzialmente non esiste. Su questo punto la maggior parte dei neuroscienziati è d’accordo con il buddismo: il solitario ‘io’ è in verità una ‘società della mente’ o una proprietà emergente o un’illusione alimentata da un qualche modulo narratore situato nell’emisfero sinistro. Nisker suggerisce scherzosamente che i neuroscienziati dovrebbero metter su dei banchetti di imaging del cervello, in modo da permettere alla gente di vedere le immagini delle proprie circonvoluzioni al lavoro. “Allora ci crederemmo. La nostra testa è una casa vuota.”

Nel suo libro La macchina dei memi. Perché i geni non bastano (Instar Libri, 2002), la psicologa britannica Susan Blackmore sostiene che il sé è semplicemente un complesso di memi, quei virus mentali in competizione fra loro che sono stati originariamente descritti da Richard Dawkins. Tuttavia alla fine del libro la Blackmore suggerisce che possiamo imparare a vivere pienamente e liberamente, senza il peso di un unico sé illusorio che ansiosamente tiene le redini di tutto – un suggerimento radicato anche nella pratica Zen dell’autrice.

Da parte sua, Nisker sostiene che il buddismo fa un passo al di là della scienza in quanto lavora per una radicale trasformazione delle nostre menti, che sono in gran parte reattive. “Non è necessario parlare di spiritualità. È così: questa è la nostra eredità, questo è il dato. Ma poi ci sono queste pratiche, questo antico metodo per esaminare chiaramente il nostro condizionamento umano. Quando vedi chiaramente questo condizionamento puoi accrescere la consapevolezza dell’intero processo e trovare in esso più libertà. Questo è incoraggiante non solo per la nostra liberazione personale, ma forse anche per il nostro destino come specie. Forse stiamo imparando a prendere in mano la nostra evoluzione.”

Francisco Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza. Feltrinelli. 1992. ISBN: 8807101599. www.feltrinelli.it

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Susan Blackmore. La macchina dei memi. Perché i geni non bastano. Instar Libri. 2002. ISBN: 8846100433

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James H. Austin. Zen and the Brain: Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. MIT Press. 1999. ISBN: 0262511096

Christopher deCharms. Two Views of Mind: Abhidharma and Brain Science. Snow Lion. 1997. ISBN: 1559390816

Wes Nisker. Buddha’s Nature: A Practical Guide to Discovering Your Place in the Cosmos. Bantam. 1998. ASIN: 0553106015

Copyright originale Erik Davis. www.techgnosis.com
Originalmente pubblicato in Feed magazine.
Traduzione di Shantena Sabbadini
Copyright per l’edizione italiana: Innernet.

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