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Alan Watts.La via dello zen.jpgAlan Watts usa, come un maestro Zen, le parole come forma di energia e come un ponte verso il silenzio della mente. “La Via dello Zen” ha divulgato lo Zen in occidente ispirando intere generazioni di giovani verso la ricerca interiore.

Pare che “Zen” sia diventata una parola che fa tendenza. Nomi di aziende e marchi registrati con la parola Zen al suo interno si sprecano, per non parlare della produzione libraria degli ultimi anni, dove lo Zen è stato associato ad ogni attività umana, dal fare carriera all’essere genitori, dal sesso alla cucina. La nostra cultura ha l’incredibile capacità di omogeneizzare, e quindi di rendere digeribile al mercato, ogni passione ed aspetto dell’animo umano. Le capacità della “società dello spettacolo”, come l’avevano definita i situazionisti alla fine degli anni ’50, non erano ancora così raffinate nel 1957, data della prima edizione americana di La via dello Zen, o nel 1960, anno della traduzione italiana, pubblicata dall’editore Feltrinelli. Zen era ancora una parola oscura all’occidente, ed a portarla alla luce ci pensarono Alan Watts e D.T. Suzuki.

La via dello Zen. WattsErano gli anni in cui in occidente i giovani iniziavano ad esplorare nuovi percorsi filosofici, esistenziali e spirituali. Da lì a poco i primi viaggi in oriente, la psichedelia e la ricerca di un significato alla propria vita al di fuori dei canoni tradizionali. La liberazione dell’individuo e la liberazione della/dalla società. La filosofia dello Zen, con la sua enfasi verso la spontaneità, verso il superamento dei condizionamenti e delle identificazioni sociali, ha potuto dunque innestarsi su un fertile terreno storico. Oggi lo Zen in Occidente, grazie anche ad Alan Watts, è una presenza viva e matura.

La prima parte del libro tratta della storia dello Zen, la seconda parte ne descrive la pratica. Animato dalla passione di esplorare le religioni orientali e i percorsi che conducono all’illuminazione, traccia la via dello Zen dalle primissime radici Indiane e Cinesi, quindi ci conduce verso le influenze Taoiste dello Zen le quali, combinate con il Buddismo indiano Mahayana, portano lo Zen alla fioritura dal dodicesimo secolo in poi nella cultura giapponese.

Lo Zen, come altri percorsi orientali, si trova a proprio agio nel vuoto e nella non-mente, mentre la nostra cultura basata sulla produzione e sull’intrattenimento mentale continuo lo teme più di ogni altra cosa. Se mai si può parlare di metodo (o non-metodo) nello Zen, il termine che più si avvicina è paradosso. Watts ha la sconcertante capacità di esprimere ciò che è molto difficilmente esprimibile a parole. E lo realizza in modo semplice ma rigoroso.

Alan Watts. La via dello Zen
La prima edizione italiana del 1960

Watts spiega la funzione dei koan (domande formulate dal maestro per i praticanti) usando la metafora del “rilassamento muscolare che si basa sull’aumento della tensione dei muscoli in modo da avere una chiara percezione di cosa non si deve fare. In questo senso l’uso del koan iniziale può essere vantaggioso come mezzo per intensificare l’assurdo sforzo della mente di afferrare se stessa”. Con genialità didattica riconduce il satori, spesso circondato da un alone mistico, ad ordinarie esperienze dove “in realtà designa il modo subitaneo e intuitivo di penetrare qualcosa, sia esso ricordare un nome dimenticato o discernere i più profondi principi del buddismo. Si insiste a cercare, ma non si trova. Si rinunzia, e la risposta viene da sé.” Tutti quanti sperimentiamo piccoli e grandi satori nella propria vita e nel percorso che porta all’illuminazione.

Watts usa, come un maestro Zen, le parole come forma di energia e come un ponte verso il silenzio della mente, perché, come scrive, “i filosofi non riconoscono facilmente che v’è un punto dove il pensiero – come la bollitura di un uovo – deve arrestarsi.”

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Alan Watts. La via dello Zen. Feltrinelli, 1996. ISBN: 8807806320

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