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Stephen K. Hayes.jpgChe buddista è mai quello che getta le persone per terra e porta con sé un grosso bastone? Il ninja Stephen Hayes sfida i nostri pregiudizi su ciò che dovrebbe essere il buddismo.

Attila S., capitano delle guardie nell’istituto di correzione di Rikers Island a New York City, entrò nella mensa della prigione. Quattrocento carcerati erano seduti tranquillamente, come un serpente arrotolato prima di colpire. Il clamore e il parlottio tipici dell’ora dei pasti erano completamente assenti. Un sapore pungente riempì la bocca di Attila: la paura. I suoi sensi entrarono in stato di massima allerta.

“Usciamo”, comandò alle sue guardie; “questo posto sta per scoppiare”. A Rikers Island gli ordini del comandante non si discutono; quando la porta sbatté dietro di loro, il suo suono normale sembrò echeggiare cento volte.

La rivolta era cominciata.

Al sicuro dietro una porta blindata, il direttore del carcere guardò negli occhi Attila, che colse al volo la domanda nel suo sguardo: «Una reazione istintiva», disse lentamente, ciondolando il capo; «una reazione istintiva». Il direttore sospirò, alzò il braccio e suonò l’allarme.

In un quartiere della classe media al centro della città, Attila siede al tavolo della sua cucina, tra pesi e bilancieri. Le due giovani figlie giocano nella stanza accanto. Tarchiato e muscoloso, il suo mite volto è incorniciato da una barba scura e ben modellata, mentre la voce aspra è stata limata da anni di discussioni con i detenuti. “La situazione nel carcere”, spiega, “era che i detenuti non vedevano più i loro dottori e avvocati. Queste sono carceri molto grandi, che crescendo diventano mostruose”.

Dopo l’«eruzione», Attila tornò nella mensa. La sua strategia era disarmare i carcerati parlando loro, non nel tono conflittuale e aggressivo che si aspettavano, ma con gentilezza e disponibilità ad ascoltare. Questa tattica non era né arbitraria né inventata sul momento: Attila era un praticante ninja.

I ninja hanno cominciato ad apparire sulla scena occidentale a partire dagli anni settanta, soprattutto grazie a film di serie B e thriller avventurosi. La grande popolarità di film come Tartarughe Ninja alla riscossa e Cowabunga Dude ha portato gli assassini giapponesi mascherati e vestiti di nero nei salotti dell’America settentrionale. Ma i ninja tradizionali hanno radici che affondano nella Cina di 2.300 anni fa. All’epoca, i militari erano chiamati “kan”. Il classico cinese Il libro della strategia considera i kan uno degli elementi più importanti di un esercito ben organizzato.

Kan letteralmente vuol dire interstizio, come l’interstizio “tra due schermi scorrevoli attraverso cui passa la ventilazione”. È attraverso tali spazi che i ninja, maestri del furto e dell’inganno, passano senza fare rumore. In giapponese vengono chiamati “shinobi”. “Shi” vuol dire intenzione o volontà, “no” indica una persona di talento o ingegnosa, mentre “bi” si traduce con informazioni. Quindi, shinobi si può considerare l’unione di intuizione, talento e conoscenza.

Attila si è specializzato sia in arti marziali che in buddismo tantrico nella setta giapponese “Tenday Mikkyo”. Il suo insegnante è Stephen K. Hayes, un americano che ha portato negli Stati Uniti la “ninjutsu”, l’arte dei ninja, alla fine degli anni settanta, fondando il “Nine Gates Institute” (L’Istituto delle Nove Porte) a Bellbrook, nell’Ohio. Hayes è anche sacerdote buddista dalla Tendai Mikkyo. Spiegando la sua reazione alla rivolta di Rikers Island, Attila dice: “Sono in grado di percepire abbastanza bene cosa vuole fare l’altro, soprattutto grazie alle sue parole o movimenti. Ciò mi viene dalla pratica Mikkyo”.

La Mikkyo è una forma esoterica del buddismo giapponese, che Stephen Hayes definisce “una scienza della mente”. Oltre alla formale meditazione seduta tipica dello Zen, essa prevede pratiche tantriche che, storicamente, sono associate alle scuole “Shingon” e “Tendai”. Nella pratica tantrica, ogni esperienza diretta è considerata utile per la trasformazione spirituale; in particolare, l’energia del desiderio, la radice di tutte le sofferenze, è ritenuta un veicolo supremo sul cammino dell’illuminazione. Hayes è anche un prete della Tenday Mikkyo, che nel suo approccio equilibra gli aspetti fisici e spirituali.

Quando Attila ha cominciato ad allenarsi con Hayes, era già cintura nera di karate, e sapeva come usare la forza per sconfiggere i suoi nemici. Ma aveva concluso che per il suo lavoro questo era “inutile”: “Semplicemente, non funzionava. La situazione dentro il carcere era già troppo aggressiva”.

La spada sopra il cuore Dalai Lama.jpgIl dojo – o sala degli esercizi – di Hayes è in realtà un tempio in cui uomini e donne affrontano lo stress e le paure della vita quotidiana, sia proprie che altrui. Qui acquisiscono sensibilità agli stati mentali associati a specifiche “kamae”, o posizioni del corpo.

Queste ultime sono basate sulle “cinque famiglie del Buddha” del buddismo tantrico, in cui diverse manifestazioni del Buddha – o della mente illuminata – rappresentano varie qualità: spazio, azione, passione, intelletto ed equanimità. Nella ninjutsu sono il “ku” (il vuoto), il “fu” (l’aria), il “ka” (il fuoco), la “sui” (l’acqua) e la “chi” (la terra). Nel corso di un training intenso, queste cinque kamae vengono continuamente usate per la trasformazione.

Alto, affabile, barbuto, dalle maniere gentili e con gli avambracci simili a due prosciutti, Stephen Hayes dà la sensazione di poter assorbire la furia dell’inferno perdendo solo un po’ di equilibrio. Quando ha ricevuto il prestigioso premio Cintura nera dell’anno dalla rivista “Black Belt”, è entrato in un ristretto gruppo di persone che annovera Chuck Norris e Bruce Lee. L’insegnante di Hayes, il Gran Maestro giapponese Maasaki Hatsumi, gli ha concesso facoltà di insegnamento completo della tradizione ninja, chiamandolo “Shidoshi” (Insegnante delle vie del guerriero verso l’illuminazione). Oltre alla sua scuola nell’Ohio, Hayes dirige centri affiliati in tutti gli Stati Uniti ed è autore di molte pubblicazioni sui ninja.

Mentre alcune scuole del buddismo asiatico sono sempre state tradizionalmente associate all’esercizio fisico, la diffusione del buddismo in America e in Europa ha per lo più ignorato le arti marziali. Questa situazione ha fatto sì che molti seguaci, altrimenti ben preparati, ignorino e siano diffidenti di quelle tradizioni buddiste in contrasto con il loro ideale di cammino compassionevole. Rispondendo alle apparenti contraddizioni tra la pratica delle arti marziali e il buddismo, Hayes dice: “Poiché questo è il vajrayana, o l’insegnamento buddista più elevato, non esiste contraddizione.

Ciò che ricerchiamo nell’azione fisica non è la violenza. È il modo in cui tolleriamo o resistiamo alla violenza. La radice «nin» di ninja vuol dire tollerare o resistere. La parte superiore del carattere cinese per «nin» vuol dire spada; la parte inferiore sta per cuore, e il significato finale è una spada tenuta sopra al cuore. «Ja» vuol dire persona. Quindi «ninja» vuol dire, in modo poetico, che anche se tieni una spada sopra il mio cuore, perseverò, sopravvivrò e andrò oltre.

Questo è un mondo folle, e non solo perché lo riteniamo tale. Per cui, quello che sto facendo è preparare le persone ad affrontare questo tipo di realtà, in modo che quest’ultima non distrugga il loro potenziale spirituale”.

Il training di ninja di Hayes sfida le convenzionali nozioni buddiste sulla natura dell’aggressione e della violenza. Una cosa è osservare la natura della mente durante un’aggressione, un’altra è il modo in cui reagisci quando vieni derubato, assalito o peggio. Hayes afferma: “Per i buddisti che non hanno mai affrontato la propria violenza o competitività interiori, queste ultime sono un tabù, quindi dentro di sé ne hanno molta paura.

Tra la retorica più violenta che abbia mai letto ci sono alcune pagine di una pubblicazione buddista sulla pace, dove si parlava dell’esercito, dei proprietari di aziende e di cose del genere… Retorica violenta contro queste persone. Esiste una similitudine con l’estremo moralismo anti-sessuale della destra fondamentalista: esso viene dalla paura del potere della sessualità. Per molti buddisti americani che hanno questo problema con la violenza, vale la stessa cosa: essi hanno un’enorme paura delle proprie tendenze violente, non-armoniose ed esteriormente non-compassionevoli”.

Questa negazione ha un corollario nelle arti marziali, dove, secondo Hayes, “La gente ha paura della propria dolcezza, quindi imita la durezza tipica di un macho violento. Dentro di sé ha paura di non essere abbastanza dura, e non vuole sentire parlare della concezione buddista di eroe”.

Una tipica classe di arti marziali ninja nella midtown di Manhattan include uomini e donne afroamericani, asiatici, bianchi e ispanici. Essi cominciano ogni classe disponendosi in file ordinate davanti alla “Kamiza”, o “sede dello spirito nel tempio della sala degli esercizi”. Inginocchiandosi, gli studenti battono le mani e si chinano a partire dalla cintola, toccando il pavimento con la fronte. L’istruttore del giorno spiega un esercizio del training, che gli studenti devono imitare.

Uomini e donne, vestiti con uniformi nere come l’ebano, puntano l’uno alla gola dell’altra, precisamente a quella piccola rientranza tra il pomo di Adamo e la clavicola, infilando due dita nel bordo dell’osso e spingendo giù i loro avversari sino a farli collassare sul pavimento come fisarmoniche. A vederli, sembra facile. Suona un cronometro: gli studenti si inchinano all’avversario, mani sui fianchi, in stile giapponese. Si scambiano posto e ricominciano questa folle danza, in cui l’attaccante cerca di trovare nel suo “uke”, o compagno di allenamento, il punto in cui schiacciare la trachea e spingere verso il basso la clavicola.

“È molto importante correggere il malinteso secondo cui insegniamo la violenza”, ripete Hayes; “Stiamo dando alle persone l’opportunità di raggiungere vari livelli di coraggio. Parlarne non è sufficiente; bisogna fare l’esperienza. Non stiamo insegnando alla gente come farsi male l’un l’altra con un coltello; la stiamo aiutando a superare la tendenza umana a negare le esperienze negative.

Cosa faresti se venissi assalita? La maggior parte della gente pensa: «Oh, non farmi questo, non farmi male». Ma nel dojo il modo di lavorare con questa situazione è: «Oh, un coltello. Non desidero che scompaia. Che rapporto posso avere con esso affinché non danneggi la mia vita?». Avere coraggio non vuol dire essere spacconi o temerari, ma conoscere i tuoi limiti, evitare certe situazioni e lavorare su quelle che sono inevitabili”.

Per portare il dharma a un numero maggiore di persone, Hayes evita la retorica buddista. “Il fine dei «mezzi abili»”, afferma Hayes, “è fornire alle persone un contesto che permetta loro di identificarsi facilmente con la fonte di questi insegnamenti. Per alcuni, la fonte deve essere un uomo asiatico non-possessivo, celibe, con una tunica leggera e la testa rasata; per altri, un uomo celibe, non-possessivo e dalla testa rasata è una scusa per non prestare attenzione agli insegnamenti.

Io sono una persona molto americana e dalla vita intensa, ma sono anche in grado di spiegare questi insegnamenti, che sono essenzialmente buddisti. Se qualcuno con una bella macchina, una bella famiglia e una bella casa – tutte le cose tipiche dell’americano medio – dicesse: «Sai come ho imparato tutta questa roba? Ho affrontato chi sono e cosa sta davvero succedendo nella mia vita, e l’ho fatto seguendo questo metodo», sarebbe credibile. La mia posizione sul mandala è all’estremità settentrionale, associata all’aria, al carattere «Fukujoju» (in sanscrito «Amoghasiddhi»), la divinità che simboleggia la saggezza dell’azione efficace: come fare le cose nel modo più efficace e opportuno”.

Charles H. aspetta dietro il volante di una macchina malridotta in una strada di Spanish Harlem. Giovane e di razza bianca, si rannicchia nel sedile per non attirare l’attenzione, mentre controlla una squadra della narcotici che sta fingendo di comprare cocaina. La sua radio trasmette una veloce merengue, mentre lui si calma usando il “respiro della terra” dei ninja. Ha bisogno di restare calmo. I suoi uomini sono nell’appartamento dall’altra parte della strada, intenti a comprare droga. Se qualcosa andasse male, toccherebbe a lui intervenire. Celata alla vista, c’è la sua protezione: un giubbetto antiproiettile e l’addestramento della Mikkyo.

A mezzogiorno, in un loft aperto, Charles sembra il classico vicino gentile, quello che ti presterebbe la falciatrice. La sua pistola è in bella vista su un tavolo di vetro accanto a noi, nella fondina di cuoio rossiccio. Chiedo: «Se tu dovessi uccidere qualcuno, ti vedresti come un protettore?». «Esattamente», risponde; «Sono un protettore di me stesso e della gente. Questo è il mio mestiere. Sono un agente governativo; ho fatto un giuramento. Sfortunatamente, al mondo esistono persone malvagie che vogliono uccidere e fare del male. Io devo impedirlo. Per lo più, lo faccio arrestando persone. Così, queste ultime non sono più in mezzo alla strada a fare del male, né stanno più accumulando karma negativo.

Come buddista, penso che si potrebbe usare l’immagine di Fudo, il dio giapponese che rappresenta il coraggio nell’addestramento della Mikkyo. Egli ha un ruolo importante nella nostra meditazione buddista. È fisso, immobile, regge una spada e ha un volto feroce. Nell’aeronautica militare, facevo l’istruttore: insegnavo “Officer Survival”, la “sopravvivenza dell’ufficiale”. Ma prima di imparare il ninjutsu, non sapevo cosa significasse davvero la “sopravvivenza dell’ufficiale”, e ignoravo che le forze dell’ordine avevano bisogno di cose molto diverse rispetto a quelle che stavano imparando. Questo è evidente nel caso di Rodney King: i poliziotti non ricevono una preparazione adeguata e provano frustrazione perché non riescono a tenere sotto controllo una persona, cosa altrimenti abbastanza facile».

Fa una pausa, pensando a quello che deve dire. «Lavoro con i dipartimenti di polizia, ma non con gli agenti regolari, bensì con le squadre speciali, le SWAT (Squadre Tattica e Armi Speciali). Faccio la scorta alle personalità politiche. Ci sono dei militanti che credono nella supremazia dei bianchi, i quali oltre ad addestrarsi in tattiche militari, hanno armi che vendono agli squilibrati, a chiunque abbia intenzione di minacciare, aggredire o uccidere un agente governativo. Alcuni incarichi sono casi di corruzione legati alla criminalità organizzata cinese, coreana o mafiosa.»

Il più elevato tantra buddista è orientato verso una realtà al di là del bene e del male. Chiedo a Charles: «Se la mente viene vista solo come luminosità e vuoto, come è possibile che qualcuno sia malvagio?». Charles spiega: «Una volta Stephen Hayes ha detto: “Non consideratevi buoni o cattivi”. Quando arresto qualcuno o compio mandati di perquisizione, ho cominciato a pensare in questo modo, e ho scoperto che non consideravo gli altri buoni o cattivi, non avevo sentimenti di odio o rabbia verso di loro, nemmeno se mi aggredivano.

Se li consideravo sia come buoni che come cattivi, se pensavo che erano la stessa cosa, che in ognuno c’era del bene e del male; se non li giudicavo, il lavoro diventava più facile. Adesso non devo giudicarli, odiarli o provare risentimento verso di loro. In realtà, posso mostrare compassione nei loro confronti. Continuo ad arrestarli e a fare cose del genere, è il mio lavoro, ma non devo giudicarli. Anche se hanno fatto qualcosa di sbagliato, non li condanno né li mando all’inferno. Sono ancora miei fratelli e sorelle. Quello che sto facendo, spero, è aiutarli a prendere il cammino giusto».

Il cammino intrapreso dagli allievi di Hayes è la prosecuzione delle “diciotto vie del guerriero”, un sistema nato in India, passato in Cina e arrivato, nel nono secolo, sulle spiagge del Giappone. Tra queste diciotto qualità, i testi assegnano il primato al “perfezionamento spirituale”. Altre categorie sono: “saltare, gettarsi a terra, abbassarsi, cadere, vari tipi di bloccaggio, uso della spada, della lancia, dell’alabarda, della falce e della catena, tecniche con il bastone, con il mezzo bastone e con i tre quarti di bastone, lancio del coltello, tiro con l’arco da cavallo, stratagemmi speciali, armi nascoste, medicine speciali, strategie, e strategie del cielo e della terra”.

L’invisibilità, la furtività e l’astuzia facevano il paio con il disprezzo per la forza bruta. Il ninja faceva molto affidamento sull’ingegnosità. Un manuale di addestramento per ninja dice: “L’essenza dello spirito dei ninja è sapere usare la pazienza insieme al corpo, la mente e il subconscio. È questa facoltà che va sviluppata tramite un duro allenamento. Il risultato porterà alla capacità di incassare qualsiasi offesa, respingendola in un secondo momento, senza traccia di risentimento”.

In Giappone, i ninja nascevano spesso nelle classi inferiori, ma era possibile che un samurai diventasse un ninja dopo essere stato sconfitto in battaglia. Così, essi non erano vincolati al rigido codice d’onore dei samurai. Le scuole dei ninja, o “ryu”, cominciavano come nuclei familiari aperti, e la maggior parte dei ninja riceveva questa educazione sin dalla nascita. I bambini venivano incoraggiati, incominciando da un’età impressionabile, a praticare giochi che richiedevano agilità ed equilibrio.

A un’età più matura imparavano a dare calci a balle di fieno e maneggiare con abilità un bastone. Nella prima adolescenza, cominciavano a usare armi vere, come le stelle a cinque punte chiamate “shuriken”, le corde e le catene. Imparavano a camminare silenziosamente sulle tegole dei tetti, le piattaforme rialzate, le stuoie tatami, il sottobosco, le foglie e gli stagni poco profondi. Un ninja imparava a camminare nell’acqua “come una gru”, ad attraversare situazioni difficili “come un granchio della sabbia” e a strisciare sulle assi o le stuoie come un “polipo”: qualità che ne facevano utili spie e mercenari del potente shogunato giapponese.

Le femmine ninja venivano considerate parte della “kamae” della “sui” (l’acqua) e venivano istruite a manipolare l’avversario attraverso le emozioni; simili all’oceano, uscivano allo scoperto e tornavano indietro, come un’onda in una corrente di ritorno, in modi imprevedibili. Queste donne, o “kunoichi”, ricevevano un’istruzione speciale che ne sviluppava l’intuizione e le doti psicologiche. Educate a manipolare gli uomini ai vertici della gerarchia nemica, erano note per nascondere coltelli dentro strumenti musicali e giocattoli sessuali.

Le “Shimma kunoichi”, membri della famiglia ninja, venivano addestrate come spie, imparando a non innamorarsi della loro vittima o a non perdere di vista l’obiettivo finale dopo una seduzione riuscita. Secondo Rumiko Hayes, cintura nera ninja e moglie di Stephen Hayes, gli agenti femminili più importanti venivano mandati in tutto il Paese a raccogliere le giovani orfane, che educavano con molta cura. Tali orfane avevano un debito eterno verso i loro agenti, e avrebbero fatto tutto ciò che gli veniva chiesto per sedurre gli uomini. Le “Karima kunoichi” erano donne che non facevano parte del clan, ma che venivano temporaneamente assunte come domestiche, insegnanti, cantanti, divinatrici, prostitute o artiste. Nell’epoca contemporanea, le ninja femminili spesso assolvono gli stessi compiti degli uomini, nelle forze di sicurezza o nella polizia.

Michael T. dirige uno dei dojo di ninjutsu negli Stati Uniti. Per un certo periodo dell’anno, offre i propri servizi a un’agenzia che fornisce agenti di sicurezza ai diplomatici internazionali. Alto e sottile, ha l’aspetto di uno scienziato introverso: e infatti, gran parte del suo lavoro consiste in una minuziosa analisi preventiva per proteggere i suoi clienti. Pratica anche il buddismo della Tenday Mikkyo. Dentro l’ufficio del suo dojo c’è un computer portatile, un telefono multilinea, libri sulle arti marziali e cataloghi per la vendita di coltelli, armi e attrezzature paramilitari.

Ci sono anche libri sul buddismo e la pratica del sogno yoga. Michael dice: “Non ho dubbi: non esiste una sola persona o animale sul pianeta che non sia capace di una violenza assoluta. Credo che il mio addestramento mi renda più nonviolento della maggior parte delle persone che incontro. Posso lasciare che la situazione arrivi a un punto estremo o degeneri molto rapidamente, perché so di poterla sempre controllare, se ne ho bisogno. Mantengo la calma più a lungo. So parlare alla gente e mettere in atto ogni sorta di stratagemma per calmarla”.

Chiedo a Michael come mette in atto questo lavoro in mezzo alla folla, come può sorvegliare con successo migliaia di persone. Egli unisce la punta delle dita in un arco sopra la fronte e la bocca, chiude gli occhi per un minuto e pensa. “Riuscire a tenere la mente calma in mezzo a una folla mi aiuta a individuare le menti meno calme, quelle violente. Sono diventato più sensibile grazie alla pratica, che mi mette in una posizione di vantaggio. Adesso, invece di mille persone, ne devo controllare solo due, che hanno intenzioni violente. Proteggo la gente. Se qualcuno ha cattive intenzioni, lo impedisco. Diverse volte sono stato più sveglio degli altri componenti della mia squadra, grazie a queste qualità. Probabilmente, non ne avrei la capacità, se non fosse per l’aspetto Mikkyo della ninjutsu”.

Michael possiede queste qualità grazie agli esercizi “kuji”. Esistono nove “kuji” fondamentali, che prevedono diversi mantra (canti) e mudra (simboli con le mani). Egli spiega: “Ci sono esercizi per restare centrati, per l’energia, per affinare l’intuizione, per anticipare i pericoli e per mettersi al riparo da questi ultimi. Quando ne ho bisogno, posso fare appello a un’energia extra e diventare molto ardente. In certi casi, accade che stia lavorando da dodici o sedici ore, quando si presenta una situazione difficile. Per esempio, alcuni ospiti indesiderati si presentano in una sala che sto controllando. Devi velocemente chiamare a raccolta l’energia; occorre essere svegli, perché l’altro lo è”.

Quando Michael tiene seminari per il personale di polizia, usa questi “kuji” in modi elementari. “Per esempio, diamo loro uno sfollagente e facciamo quello che chiamiamo un esercizio di messa a fuoco. Invece del mantra, «Kahm-man», diciamo «mente calma». Abbiamo scoperto che se prendi lo sfollagente in mano e pensi «mente calma», ottieni ottimi risultati”.

Poiché è un’arte marziale assai rigorosa, al dojo arrivano molti ragazzi di strada alla ricerca di più potere, anziché di meno potere. Michael dice: “Non insegno a un ragazzo di strada violento come essere più violento. Gli spiego come essere meno violento, come fare a meno della violenza. Pochissime persone abbandonano perché non siamo un’arte marziale sufficientemente dura; la gente se ne va perché la mettiamo in contatto con altre parti di se stessa”.

Una domenica mattina, di buon’ora, Stephen Hayes sta tenendo una lezione introduttiva alla Mikkyo, nel dojo. Prima di entrare nella sala, le persone si inchinano, le braccia distese lungo i fianchi. Discretamente appese agli angoli, vi sono maschere di spiriti giapponesi e calligrafie di inchiostro nero. Il cronometro elettronico delle classi di arti marziali è sostituito dai timpani sonori e melodiosi di due piccoli cimbali tibetani. Bastoncini di incenso al muschio vengono accesi con fiammiferi affusolati. I partecipanti non indossano uniformi nere, ma bianche. Anche le cinture e i calzini, detti “tabi”, sono dello stesso colore. Uomini e donne siedono in fila a gambe incrociate; alcuni reggono “dorje”, scettri tibetani, e campane di ottone.

L’atmosfera è serena e appartata. Non si sente l’odore di sudore tipico delle arti marziali. A sinistra è stato aperto un altro altare, scoprendo un dipinto. Si tratta di un irato demone a più teste, vagamente femminile, che sovrasta un cinghiale peloso e selvatico, attorniato da ciascun lato da un elaborato mandala. Questo “honzon” contiene la qualità dell’energia illuminata, una sorta di irata pazza saggezza. I partecipanti cominciano a salmodiare: “Om boji-shitta boda hada yami. Om sammaya sa to ban” (Ci protendiamo verso l’alto per unirci alla verità più elevata. Risvegliare la mente illuminata è la mia aspirazione. Ci protendiamo verso l’alto per unirci alla verità più elevata. Faccio voto di impegnarmi a fondere le forze terrestri e celesti).

Quanti studenti di Stephen Hayes si risveglieranno all’illuminazione? “Finora, la maggioranza dei partecipanti al training di ninja viene dalle arti marziali”, dice Hayes; “Adesso, al mondo, esistono molte persone in grado di usare questi insegnamenti – le arti marziali e il buddismo – ma se ci fossimo presentati in modo troppo diretto, avrebbero pensato: «No, non è questo ciò che voglio». Quindi, far conoscere le idee del dharma richiede una certa accortezza. Ci sono persone molto soddisfatte della propria fede cristiana o ebrea. La cosa non mi disturba, perché ho seguito lo stesso percorso. Ho impiegato anni”. Continuando a riflettere, si passa la mano muscolosa sulla barba riccioluta e dice: “Guardandomi intorno, penso che nel buddismo moderno siano necessari tutti i tipi di approcci e di strade”.

Ellen Pearlman è una scrittrice residente a New York City.

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Stephen Hayes. Ninja. 1. I guerrieri dell’Ombra. Mediterranee. 1993. ISBN: 8827202196

Stephen Hayes. Ninja. 2. I guerrieri dell’Ombra. Mediterranee. 1992. ISBN: 8827200150

Stephen Hayes. Ninja. 3. L’Arte segreta del combattimento. Mediterranee. 1993. ISBN: 882720220X

Stephen Hayes. Ninja. 4. I guerrieri invisibili. Mediterranee. 1991. ISBN: 882720363X

Stephen Hayes. Ninja. 5. La via del guerriero di Tokagure. Mediterranee. 1992. ISBN: 8827200339

Stephen Hayes. Ninja. 6. I nuovi ‘guerrieri della notte’. Mediterranee. 1992. ISBN: 8827201017

Copyright originale “What is Enlightenment” magazine www.wie.org
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini.
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet

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