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25
Jun
2009
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Ricerche in collaborazione fra buddisti e scienziati

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meditatore eeg.jpgUn progetto di ricerca per acquisire nuove conoscenze sull’impatto che la meditazione può avere sulle funzioni affettive e cognitive fondamentali e sui meccanismi cerebrali sottostanti a tali processi. Alcuni degli attributi mentali positivi intenzionalmente coltivati nelle pratiche contemplative buddiste, per esempio la compassione, non sono mai stati inclusi nello studio neuroscientifico occidentale delle emozioni.

Addestrare e studiare la mente: verso un’integrazione delle pratiche contemplative buddiste e delle neuroscienze
Scopi generali del progetto di ricerca

Lo scopo generale di questo progetto di ricerca è acquisire nuove conoscenze sull’impatto che la meditazione può avere sulle funzioni affettive e cognitive fondamentali e sui meccanismi cerebrali sottostanti a tali processi. La ricerca mira inoltre a favorire un approfondimento della conoscenza della natura dell’esperienza cosciente. Alcuni degli attributi mentali positivi intenzionalmente coltivati nelle pratiche contemplative buddiste, per esempio la compassione, non sono mai stati inclusi nello studio neuroscientifico occidentale delle emozioni (vedi Davidson, 2002).

La presente ricerca intende sottoporre questi attributi mentali positivi a uno studio scientifico. Inoltre, combinando il rigoroso esame diretto dell’esperienza cosciente coltivato dalle pratiche contemplative buddiste con l’esplorazione neuroscientifica occidentale delle manifestazioni neurali e somatiche degli stati coscienti, è possibile acquisire nuove prospettive sulla natura fondamentale della coscienza (vedi Varela 1996; Lutz et al., 2002).

Descrizione del progetto di ricerca

Il progetto comporta la misurazione dell’attività funzionale del cervello con metodi di imaging su praticanti buddisti avanzati in vari stati meditativi. Questi studi sono attualmente in corso nel Keck Laboratory dell’Università di Madison, Wisconsin, e nel laboratorio LENA (CNRS, UPR 640), all’ospedale della Salpêtrière a Parigi.

La ricerca si concentra su quattro stati mentali ben documentati nella psicologia buddista, detti rispettivamente attenzione focalizzata, attenzione aperta (o pura consapevolezza), visualizzazione e generazione della compassione. Queste tecniche meditative coltivano varie facoltà mentali, alcune delle quali hanno ricevuto scarsa attenzione nella letteratura scientifica moderna.

L’attenzione focalizzata (Samatha) o ‘concentrazione univoca’ comporta il mantenere l’attenzione focalizzata su un singolo oggetto senza distrazione.

L’attenzione aperta (Rigpa) è uno stato di totale apertura, in cui la mente non è focalizzata su alcunché. In questo stato la mente è indifferente e imperturbata nei confronti di percezioni, ricordi o fantasie, benché non vi sia alcuna intenzione di bloccare o impedire tali esperienze.

La visualizzazione consiste nel costruire e nel contemplare mentalmente immagini visive altamente dettagliate.

La compassione consiste nel coltivare intenzionalmente uno stato affettivo positivo che i praticanti buddisti ritengono essenziale per controbilanciare le tendenze egocentriche. È uno stato in cui l’amore e la compassione occupano completamente la mente, senza altra considerazione, ragionamento o pensiero discorsivo.

Nei nostri studi-pilota preliminari abbiamo esaminato questi stati mentali sia in assenza di stimoli esterni, sia durante la presentazione di immagini visive. Sono state usate tre tecniche non invasive di imaging del cervello: l’elettroencefalografia ad alta densità (EEG), la magnetoencefalografia (MEG) e l’imaging funzionale tramite risonanza magnetica (fMRI). EEG (Figura 1) e MEG (Figure 2 e 3) sono tecniche complementari che misurano rispettivamente i potenziali elettrici nel cuoio capelluto e l’induzione magnetica intorno alla testa prodotti dall’attività elettrica di gruppi di cellule neurali.

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Figura 1: EEG

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Figura 2: MEG

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Figura 3: Processo che dà origine a variazioni localizzate nel campo elettromagnetico per effetto dell’attivazione neurale (immagine tratta da Baillet S. et al., 2001).

Queste due tecniche hanno un’eccellente risoluzione temporale, dell’ordine del millisecondo, che ci consente di esplorare la dinamica temporale fine dei processi neurali in questi stati meditativi. La fMRI ha una scala temporale molto più lenta (dell’ordine del centinaio di millisecondi), ma offre una risoluzione spaziale che può andare fino a 1-3 mm. Questa tecnica registra i cambiamenti emodinamici legati ai processi neurali. Quando i neuroni si attivano, essi producono mutamenti localizzati di flusso sanguigno e livello di ossigenazione, la cui immagine fornisce un correlato dell’attività neurale. La fMRI ci fornisce dunque informazioni anatomiche e funzionali sulle strutture corticali e subcorticali che si attivano in un particolare stato mentale (Figure 4 e 5).

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Figura 4a: Scanner per la risonanza magnetica

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Figura 4b: immagine della struttura del cervello.

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Figura 5: Esempi di attivazione funzionale (in arancione e rosso) sovrapposti a immagini della struttura del cervello ottenute con fMRI.

Combinando le risoluzioni spaziale e temporale di queste tecniche, speriamo di riuscire a identificare le strutture neurali attivate durante questi stati meditativi e a caratterizzare l’impronta neurale del loro coordinamento dinamico. È un fatto largamente accettato che ogni processo mentale complesso (come la percezione, l’azione, l’immaginazione, l’emozione…) sia caratterizzato dall’attività simultanea di regioni cerebrali variamente distribuite, funzionalmente specializzate e costantemente interagenti. Ogni ipotesi relativa al sostrato di un certo stato di coscienza deve perciò render conto del coordinamento di queste varie componenti, necessarie a produrre un’attività cerebrale globale transitoriamente unificata.

Un meccanismo possibile di questo coordinamento è la sincronia neurale, per via del suo presunto ruolo nel costituire i circuiti transitori che integrano processi cerebrali diffusi generando funzioni cognitive altamente ordinate (vedi la rassegna di Engel et al., 2001, e di Varela et al., 2001). Tali configurazioni temporali coerenti potrebbero rappresentare la controparte neurale dell’esperienza soggettiva e possono essere valutate con metodi matematici recenti a partire dai dati ottenuti mediante EEG/MEG (Figura 6). Le nostre ipotesi di lavoro sono perciò, in primo luogo, che stati meditativi specifici possano essere correlati con specifiche impronte dinamiche neurali rappresentate da configurazioni sincroniche; in secondo luogo, che il perdurare di tale configurazioni sincroniche durante uno stato meditativo possa influire in maniera sostanziale sulla struttura temporale delle risposte neurali agli stimoli sensoriali.

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Figura 6: Il colore rosso indica un’intensificata sincronia locale registrata da un singolo elettrodo sul cuoio capelluto (potenza emessa in una data frequenza). Le linee nere corrispondono invece a sincronie di fase a distanza fra popolazioni neurali, registrate da elettrodi lontani oscillanti con una relazione di fase costante per un certo numero di cicli (Lachaux et al., 1999). In questa ricerca lo studio della sincronia e della dinamica non lineare si servirà di vari algoritmi sviluppati al laboratorio LENA, CNRS UPR 640, Parigi. Per ulteriori informazioni in merito contattare Jean-Philippe Lachaux, dell’équipe neurodinamica.

Ricercatori scienziati e buddisti:

Richard J. Davidson, Direttore, W.M. Keck Laboratory for Functional Brain Imaging and Behavior, University of Wisconsin-Madison
Antoine Lutz, Post-doctoral fellow, W.M. Keck Laboratory for Functional Brain Imaging and Behavior, University of Wisconsin-Madison
Matthieu Ricard, Shechen Monastery, Katmandu, Nepal
Francisco Varela, PhD (1946-2001) è stato profondamente coinvolto nel dar vita a questo progetto: alla sua memoria è dedicato il nostro lavoro.

Bibliografia
Davidson, R.J. (2002). “Toward a biology of positive affect and compassion”. In R.J. Davidson and A. Harrington, (Eds.), Visions of Compassion: Western Scientists and Tibetan Buddhists Examine Human Nature. New York: Oxford University Press.
Engel, A.K., Fries, P., and Singer, W. (2001). Dynamic predictions: oscillations and synchrony in top-down processing. Nat Rev Neurosci, 2: 704-16.
Lutz, A., Lachaux, J.P., Martinerie, J., and Varela, F.J. (2002). Guiding the study of brain dynamics by using first-person data: Synchrony patterns correlate with ongoing conscious states during a simple visual task. Proc Natl Acad Sci U S A, 99: 1586-91.
Varela, F. 1996. Neurophenomenology : A Methodological Remedy to the Hard Problem. Journal of Consciousness Studies, 3: 330-50.
Varela, F., Lachaux, J.P., Rodriguez, E., and Martinerie, J. (2001). The brainweb: phase synchronization and large-scale integration. Nat Rev Neurosci, 2: 229-39.

Copyright originale Mind & Life Institute www.mindandlife.org
Traduzione di Shantena Sabbadini.
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.

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9 Responses

  1. Anna

    Non so perchè ma oggi mi viene spontanea una ribellione. La mia pancia rifiuta l’idea di queste indagini invasive anche se ne posso comprendere la necessità. Molto semplicisticamente esprimo come si può comprendere l’aumento dell’attività neuronale osservando il comportamento del soggetto nel tempo. Più il numero dei neuroni attivati aumenta più aumenta l’attenzione che si può verificare sia sogettivamente che oggettivamente. Con affetto Anna

  2. elsa

    Non capisco il senso di queste ricerche. Le trovo assurde.
    I buddisti hanno bisogno di conferme scientifiche alla loro meditazione?
    La scienza occidentale cosa pensa di scoprire? Qualche nuovo rimedio al malesse diffuso da vendere sul mercato farmaceutico e psicologico?
    Meditazione e scienza sono due esperienze e modi di conoscenza completamente diversi; non si può capire l’uno con i metodi dell’altro.
    Perdita di tempo e di soldi …..
    E poi cos’è questa necessità impellente di sapere, di indagare, di teorizzare? Un bisogno di controllare la vita? Ma così si rischia di non viverla.

  3. Fiorenza

    Questo articolo mi ha fatto veramente arrabbiare. So che il Dalai Lama stesso e’ interessato ad alcuni di questi progetti e li segue, tuttavia questa medicalizzazione anche della meditazione mi sembra pazzesca. Viviamo in un mondo in cui vi e’ un eccesso di scienza, o meglio un eccesso di scienza tecnologica, la medicina occidentale considera l’uomo come una macchina, non siamo guardati come persone ma oggetti da studiare e adesso lasciamo che anche un campo cosi’ profondo come la spiritualita’, il buddismo, la meditazione vengano scansionati da una tac, oltraggiati da una risonanza magnetica…ma cosa volete che ci dicano queste macchine? Non abbiamo niente da imparare dalle macchine, ma solo da veri esseri umani.
    saluti a tutti
    Fiorenza Simonazzi

  4. Watts

    La ricerca di correlati neurofisiologici della meditazione risale ai primi anni ’60 ed era principalmente basata su dati elettroencefalografici, che confrontavano i tracciati EEG di soggetti meditanti “alle prime armi”,” intermedi” ed “esperti”, identificando alcune significative differenze nei pattern elettroencefalografici (distribuzione del ritmo alfa, coerenza tra le varie aree cerebrali).
    Venivano addirittura trovate delle differenze tra le caratteristiche EEG del meditante Zen e di quello Yoga.
    All’ inizio degli anni ’70 questo tipo di produzione scientifica (un po’ di moda all’ epoca della riscoperta dell’ “oriente” ) scomparve bruscamente dalla bibliografia scientifica.
    Eccola ora ricomparire “sotto mutate spoglie” come studio della meditazione e dei suoi correlati in Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI).
    Non ho dubbi che ne avremo per qualche anno , poi la moda cessera’.
    Forse si vuole dimostrare che l’ “anatma” ha come base una particolare configurazione delle aree cerebrali, che viene ad essere raggiunta con la pratica meditativa?.
    Certo i concetti di materia e spirito sono espressione di un dualismo occidentale (pensiamo a Cartesio), ma ridurre il processo meditativo ad una particolare interazione tra funzioni cognitive, sostanza reticolare ascendente, recettori delle encefaline e quelli benzodiazepinici, sembra un po’ riduttivo ed ingenuo ed assomiglia vagamente alla visione di Cartesio che identificava nella ghiandola Pineale il punto di congiunzione inarrivabile fra spirito e materia.
    Watts

  5. Irene

    Francisco Varela, a cui questa ricerca è dedicata, era un neurofisiologo cileno che ha dovuto lasciare il Cile dopo la presa del potere da parte di Pinochet. E’ stato allievo e collaboratore di Humberto Maturana e con lui ha formulato la definizione della vita come “autopoiesi”. Ha accostato scienza e meditazione sia nel suo lavoro che nella sua vita personale, approfondendo e praticando egli stesso la meditazione buddista. Scrivo queste poche righe biografiche per invitare a leggerlo direttamente e scoprire che ha combattuto sempre contro una concezione cartesiana dell’uomo. Devo dire che mi stupiscono tutto l’allarme e gli atteggiamenti di chiusura contenuti nei commenti che mi precedono, quasi che studiare la mente possa romperne la sacralità: non mi sembra si tratti di ricerche “invasive” o “oltraggiose” come le hanno definite Anna e Fiorenza; né condivido il senso di inutilità che denuncia Elsa: anche il lavoro del meditante buddista è un lavoro di ricerca, mediante un approccio diretto, esperienziale e pragmatico che non ha equivalenti nella scienza occidentale: proprio per questo Varela considerava così importante integrarlo nell’ordinaria attività scientifica. Trovo profondamente bello che scienza e meditazione possano dialogare: perché – appunto – a esperire l’una e l’altra ci sono sempre uomini. Per quanto riguarda il timore che studiando la vita si rischia di non viverla… penso che capire, essere consapevoli SIA un modo di vivere, sia per la scienza che per il buddismo.
    Infine, riferendomi a Watts, vorrei dire che mai l’intento di Varela è stato di tipo riduzionista: il suo lavoro ci ha regalato una scienza cognitiva che lui stesso chiamava “incarnata”, finalmente davvero distante dai parallelismi mente/computer del cognitivismo.
    Che l’esercizio costante della meditazione si traduca in una modificazione “fisica” del praticante mi sembra meraviglioso e commovente.
    Come avrete intuito, sono molto interessata sia alle neuroscienze che al buddismo e alla meditazione. Probabilmente chi già pratica regolarmente trova di scarsa utilità le ricerche di cui stiamo discutendo, ma per me incrociare l’opera di Varela è stato entusiasmante.
    Saluti a tutti,
    Irene.

  6. Watts

    Nonostante le ragionevoli e “vissute” motivazioni addotte da Irene continuo a ritenere un po’ ingenuo tentare di spiegare la meditazione per mezzo di meccanismi cerebrali identificabili attraverso macchine, per quanto complesse e sofisticate queste siano.
    La meditazione in se e’ infatti una “spiegazione” del mondo “altra”, cioe’ non riconducibile a schemi meccanicistici legati alle dinamiche dei neuroni , delle sinapsi e dei mediatori chimici.
    Questi schemi possono, in effetti, cogliere aspetti esterni dell’ attivita’ meditativa utili a testimoniare che “qualcosa” accade nel corpo e che lo modifica.
    Tuttavia tentare di spiegare la realta’ meditativa con questi cambiamenti mi sembra sia un fermarsi alla superficie, una spiegazione forse, al meglio, “utile” purche’ si sia ben consapevoli dei suoi limiti.
    E’ qualcosa di simile allo storico tentativo filosofico/teologico di spiegare dio e la sua esistenza per esempio attraverso il concetto aristotelico di motore primo.
    Quando la mente cerca di risolvere “Dio” in un concetto, ( o in una spiegazione scientifica) essa crea un idolo concettuale con le stesse valenze dell’idolo estetico: il concetto, infatti, non si commisura tanto al divino, quanto piuttosto alla portata della capacità che lo ha appreso e che vi si rapprende, si lascia colmare da esso.
    La scienza puo’ forse, quindi, spiegare la nascita della vita, ma non… la vita.
    L’ approccio “definitivo” non potra’ mai essere di questo tipo.
    Solo l’ approccio “intuitivo” e’ l’ unico in grado di avvicinarsi alla Realta’ ultima.
    “Il Tao di cui si puo’ parlare non e’ il vero Tao”.

  7. Irene

    Ringrazio Watts per l’attenzione e condivido le sue parole.
    Voglio solo sottolineare ancora che l’intento della ricerca di cui parliamo non è “spiegare” la meditazione (da Galilei in poi chi fa scienza non si sogna nemmeno di cercare cause ultime e risposte definitive) ma “acquisire nuove conoscenze sull’impatto che la meditazione può avere sulle funzioni affettive e cognitive fondamentali e sui meccanismi cerebrali sottostanti a tali processi”, come dichiarato dagli stessi ricercatori. E’ quindi un intento sostanzialmente descrittivo. non esplicativo.
    Irene.

  8. Watts

    Grazie, Irene, per il chiarimento.
    Penso che, in questa accezione, l’ impegno scientifico sia un aiuto alla comprensione e non un ostacolo, come temo di aver interpretato.
    Credo che una parte delle reazioni di chiusura che Irene ha rilevato fossero dovute ad un analogo fraintendimento, in parte giustificato da un certo “trionfalismo scientifico” che impregnava l’ articolo.

  9. Dario

    Credo che la motivazione dei praticanti, o dei lama, che decidono di prendere parte a queste ricerche sia diffondere il dharma, la parola buddhista. Gli strumenti, i percorsi, che il buddhismo ha plasmato nel corso dei secoli sono diversi, e tutti estremamente precisi e delineati. Tengono conto dell’uomo per quello che è, con le sue debolezze. Non credo che questa collaborazione vada percepita come qualcosa di forzoso: si tratta di una buona opportunità per fare dialogare due tradizioni (peraltro secondo me perfettamente compatibili)

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