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near death.jpgLa maggior parte degli individui che vive un’esperienza di quasi morte ha ancora la sensazione di stare trattenendo almeno qualcosa del proprio essenziale io personale. Questo io personale è di solito il principale osservatore esterno della scena. Uno studio delle dinamiche e della neurofisiologia delle esperienze prossime alla morte.

Esperienze di “quasi morte” e atteggiamenti di “morte lontana”

Tutte le scelte sono influenzate dal modo in cui la personalità considera il suo destino, e il corpo la sua morte. In ultima analisi, è il nostro concetto di morte che decide o risponde a tutte le domande che la vita ci mette davanti… Da qui deriva anche la necessità di prepararci a essa.
Dag Hammarskjold

Il nostro concetto di morte influenza il modo in cui viviamo? Se Hammarskjold avesse ragione, sarebbe meglio che ognuno di noi elaborasse una sua valida idea sulla morte, preparandosi a essa senza indugiare sui suoi aspetti morbosi. Più facile a dirsi che a farsi.

Un secolo fa, Albert Heim ha riassunto nel seguente modo i racconti di trenta persone che improvvisamente si sono trovate davanti alla morte. La loro ordalia venne provocata da lunghe cadute dalle cime alpine. Dopo essersi trovati a un passo dalla morte, questi superstiti hanno raccontato di aver provato, in quel momento, “un senso di grave tranquillità, un’accettazione profonda e uno stato prevalente di acutezza mentale e di senso di sicurezza. L’attività mentale divenne enorme, cento più volte più veloce o intensa. Le relazioni tra gli eventi e le loro probabili conseguenze venivano viste con grande chiarezza.

Il tempo si espanse grandemente. L’individuo non era confuso, ma agiva con la velocità di un fulmine e dopo un’accurata valutazione della situazione. In molti casi, le persone rividero in un lampo tutto il proprio passato. Alla fine, al momento della caduta, si udì spesso una musica bellissima e si ebbe la sensazione di precipitare in un magnifico paradiso blu, con nuvolette rosate (nota 1)”.

Heim era un alpinista e un professore di geologia, oltre che uno dei primi teorici delle esperienze “di vetta”. Ma Charles Darwin aveva vissuto, ancora prima, un rapido flusso mentale durante una breve caduta, da bambino. Perciò, potremmo definire tali eventi minori – un flusso impetuoso di pensieri verso l’estremità darwiniana dello spettro – come esperienze di “quasi-vita”. Esse sono molto più semplici delle altre sequenze di fenomeni che Heim avrebbe descritto dettagliatamente.

Dunque, Heim, nonostante la sua caduta fosse stata molto più lunga e pericolosa, disse di “non aver sperimentato alcuna traccia di ansia o dolore”. Anzi, accettò “senza paura l’ineluttabilità della morte. Tutto era andato così, e sembrava giustissimo. Avevo la sensazione di essermi sottomesso alla necessità (nota 1)”.

In quei primi secondi, come Darwin, anche Heim sperimentò un flusso impetuoso di pensieri e immagini usciti casualmente dalla memoria. Ma presto, nel corso della sua più lunga e temibile caduta, si verificarono altri eventi mentali.

Questi ultimi sono stati da allora chiamati “esperienze di quasi morte”. La minaccia è reale; la morte, imminente. L’ordalia è sconvolgente, se non spaventosa. Le nuove difficoltà fisiologiche spingono in primo piano dimensioni extra psicologiche. Per esempio: il tempo esteriore rallenta; quello interiore va a tutta velocità; gli eventi sembrano accadere al rallentatore. Questo tipo di deformazione temporale ritorna anche nella maggior parte dei racconti dei 104 superstiti studiati da Noyes e Kletti (nota 2). Quasi la metà di questi soggetti si staccò dal corpo, e più di un terzo sperimentò anche una sequenza-lampo di vecchi ricordi.

Talvolta, per descrivere il flusso di questi spezzoni vividi e isolati di memoria, si usa liberamente il termine “panoramico”. Ma in realtà i racconti parlano di una grande varietà di istantanee uscite da tutto il passato dell’individuo. Quindi, il termine “panoramico” fa riferimento a eventi isolati, in porzioni di tempo, senza continuità narrativa. Non vuol dire che l’individuo gode di un panorama a trecentosessanta gradi di tutto ciò che lo circonda, allo stesso momento, come può succedere in una visione di grande assorbimento (nota 4). In realtà, per usare le parole di Heim, “Ho visto tutta la mia vita attraverso molte immagini, come su un palcoscenico a una certa distanza da me”.

Solo a questo punto, dopo essere passati attraverso queste istantanee iniziali di avvenimenti del passato, alcuni soggetti entrano nella fase successiva. Si tratta davvero di “un altro mondo”, dalle caratteristiche difficili da descrivere. Per circa un terzo dei soggetti, l’esperienza adesso sembra produrre un grande senso di armonia, unità o intelligenza, dando la sensazione di essere al di là del tempo, in una condizione immutabile.

È risaputo che simili stati “oltremondani” accadono anche sul lungo cammino spirituale verso l’illuminazione. Quindi, dobbiamo chiederci: cos’altro c’è di diverso nei soggetti che hanno “estensioni mistiche” in quest’ultima fase dell’esperienza di quasi morte? Con poche eccezioni, sono le stesse persone di cui in seguito si è pensato che, in quel momento, abbiano avuto qualche disturbo nel funzionamento del cervello. Cioè, esse stavano annegando, prive di ossigeno, in uno shock vasomotorio con scarsa pressione sanguigna, o in qualcosa di altrettanto grave. Per contrasto, le componenti mistiche tendevano a non comparire se la caduta era priva di complicazioni. Né questa fase “mistica” accadeva durante eventi traumatici se la persona non aveva riportato gravi ferite alla testa, al torace o in altre parti del corpo.

Quando la sopravvivenza è in gioco, emergono potenti forze interiori. Nonostante ciò, molti soggetti si sentono impotenti di fronte alle circostanze inesorabili. A questo punto, essi potrebbero sperimentare quello che il professor Heim ha splendidamente descritto come il sentirsi “sottomessi alla necessità”. Ma si osservi: a questo punto si tratta perlopiù di una rinuncia passiva al controllo. Non siamo di fronte a una ben ponderata rinuncia all’io.

È un processo che, poiché accade senza l’intervento dell’io volitivo, provoca di base una dissoluzione spontanea del vecchio, egocentrico io. E sarà a questo punto della resa – dell’incondizionata e assoluta resa – che tutte le paure transitorie si placheranno da sole. Ora, sparito il sé dal campo di battaglia, la morte viene accettata con assoluta calma (nota 1). Segue una profonda tranquillità.

Durante la loro ordalia di quasi morte, i soggetti non sono turbati dalla perdita dell’io o da altri sintomi di spersonalizzazione. Piuttosto, in seguito ricorderanno con gratitudine la calma sperimentata. Di più: in alcuni casi, questa mancanza di emotività davanti al pericolo diventerà una costante nella vita. Dopo, questi sopravvissuti ricordano l’episodio senza coinvolgimento.

Lo studio di G. Gallop Jr. sulle esperienze di quasi morte includeva interviste con circa 1500 adulti (nota 6). In questa rassegna di persone che avevano incontrato per davvero la morte, quante entrarono in un’altra dimensione della consapevolezza? Solo una minoranza, circa il 35%. Inoltre, la maggior parte delle caratteristiche individuali di ciascuna esperienza non era specifica. Ovvero: altri soggetti avevano avuto reazioni simili in molte altre situazioni della vita. Anche la maggior parte di queste circostanze ordinarie aveva messo a repentaglio la vita di quei soggetti? No. Quindi, trovarsi davvero vicini alla morte non è il fattore critico.

Ebbene, i ritiri di meditazione sono tra le molte altre situazioni che provocano stati alterati di consapevolezza. Alcuni ritiri di meditazione possono essere molto duri, ma non pongono alcuna minaccia reale alla vita. D’altra parte, quando i meditatori raggiungono il loro livello più profondo e fondamentale di calma e chiarezza mentale, eventi relativamente nascosti (o più evidenti) possono rappresentare uno stimolo momentaneo. Data questa introduzione, quale gruppo di caratteristiche emerse dallo studio di Gallup?

1) La percezione di essere fuori dal corpo. Questa è la sensazione che si ha quando la propria consapevolezza osservatrice è separata dal corpo fisico. Il nove per cento degli adulti riferisce di aver sperimentato questo stato durante la propria esperienza di quasi morte.

2) Un’acuta percezione visiva, sia dell’ambiente circostante che degli eventi che vi avvenivano (8%).

3) Suoni provenienti da persone in carne e ossa nei dintorni, o da un’altra fonte (6%).

4) Una pace straripante e la scomparsa del dolore (11%).

5) Una luce brillante e accecante (5%).

6) Una veloce rassegna o riesame della propria vita (11%).

7) La netta sensazione di trovarsi in un mondo completamente diverso (11%).

8 ) La sensazione che sia presente una persona speciale (8%).

9) La percezione di una specie di tunnel (3%).

Consideriamo le prime due caratteristiche dell’elenco. Le esperienze “fuori dal corpo” possono durare forse mezzo minuto (alcune sembrano durare fino a mezz’ora). La maggior parte delle volte accadono in momenti di coercizione emotiva e in circostanze altre da un’esperienza di quasi morte( nota 7). Per esempio, alcune persone, mentre meditano o dormono, hanno la sensazione che il centro della loro consapevolezza si sia spostato, situandosi fuori dai confini del corpo fisico (nota 8). In questi momenti, i soggetti hanno la sensazione di stare fluttuando verso l’alto, in modo che, guardando verso il basso, vedono il proprio corpo. L’esperienza sembra autentica, non un sogno (nota 9).

La maggior parte degli individui che vive un’esperienza di quasi morte ha ancora la sensazione di stare trattenendo almeno qualcosa del proprio essenziale io personale (nota 10). Questo io personale è di solito il principale osservatore esterno della scena. Esso osserva “l’altro” io, quello fisico, che sembra staccato e lontano. Talvolta, anche l’essenziale io personale viene proiettato sulla scena. In tal caso, esso viene guardato da un altro, doppio io personale. Il fenomeno per cui una persona vede se stessa (una sorta di diplopia mentale) viene chiamato autoscopia. È degno di nota il fatto che l’autoscopia può avere luogo anche in quei pazienti epilettici la cui crisi comincia nel lobo temporale del cervello (nota 11).

Ma in alcuni soggetti la dissoluzione dell’identità personale si spinge ancora più in là. E dopo di essa, accadono molti altri fenomeni negli stadi successivi dell’esperienza di quasi morte. Per esempio, nell’istante successivo si può avere una sensazione di espansione. In tal modo, si verifica una fusione con qualcosa di paragonabile a una “immanenza, senza tempo né spazio, dell’essere universale in un centro particolare”. In alcuni soggetti, la sensazione di fusione con un essere universale assume allora “una qualità e uno splendore” più elevati, per quanto alcuni soggetti parlino di un fallimento nel raggiungere “tutta la vastità e il potere di Dio” (note 12, 13).

È possibile trovare significati sia psicologici che fisici nella vecchia frase “vedere la luce”. Secondo studi recenti, le persone che riferiscono di aver visto una luce di brillantezza intensa sono anche coloro che con più probabilità si sono avvicinate maggiormente alla morte vera (nota 14). E la personalità di chi ha vissuto l’esperienza della luce brillante tende successivamente a essere quella più trasformata (nota 15).

Fortunatamente, Heim è sopravvissuto alla sua caduta alpina di 2000 metri, potendo così descriverci gli eventi accaduti durante essa. Ma resta una perplessità. Molti sono sfiorati dalla morte, tuttavia pochi sperimentano lo spettro completo delle principali caratteristiche dell’esperienza. Di fatto, secondo le stime più recenti, solo circa il 22% di coloro che hanno sperimentato l’ordalia di una “chiamata molto vicina”, e non il 35%, vive l’esperienza di quasi morte (nota 16). Perché così poche persone sperimentano uno stato alterato? Una spiegazione plausibile è che eventi bruschi e sconvolgenti, di qualsiasi tipo, provocano tali stati solo se accadono in un momento particolare del ciclo biologico di una certa persona, e in un determinato contesto (nota 4).

Trasformazioni successive

Un fatto importante è chiaro: alcune esperienze di quasi morte in seguito trasformano la vita del sopravvissuto. Quest’ultimo può letteralmente sentirsi “rinato”, e cominciare una genuina ricerca spirituale (nota 17). Da questo punto di vista, l’ultima fase di un’esperienza eccezionale diventa un risveglio profondo. È un’illuminazione che può ricordare un’esperienza mistica altrimenti convenzionale, ovvero senza il preludio di un chiaro pericolo (nota 10). Circa il 64% di un gruppo di 215 soggetti vicini alla morte ha completamente mutato atteggiamento sulla vita e la morte (nota 18). In che modo? Beneficiando delle seguenti caratteristiche: 1) una ridotta paura della morte; 2) una sensazione di relativa invulnerabilità; 3) la sensazione di avere un’importanza o un destino speciali; 4) la convinzione di essere stati prescelti dal fato o da Dio, e 5) una maggiore fiducia nella propria esistenza.

Un contatto ravvicinato con la morte innalza la consapevolezza generale. Da allora in poi, la persona tende a sviluppare molti atteggiamenti supplementari. Essi includono: 1) la consapevolezza della preziosità della vita; 2) una sensazione di urgenza e una nuova scala delle priorità; 3) una maggiore consapevolezza del momento presente; 4) una maggiore accettazione degli eventi naturali a vasta scala sui quali, in realtà, non si ha alcun potere.

Esperienze del letto di morte

Oggigiorno, il pubblico conosce molto bene le esperienze di quasi morte (“NDE”, in inglese). Data la grande pubblicità, bisogna osservare un fatto. Molte persone non sono mai state vicine alla morte “vera” come forse una volta sono state portate a credere (nota 14).

Ma ora conosciamo un immutabile insieme di circostanze sulla fine autentica del ciclo della vita. Gli eventi culminano nell’esperienza del letto di morte. La maggior parte di questi pazienti terminali – i malati di cancro, per esempio – hanno a disposizione ore, se non mesi, per riflettere sull’irrimediabilità della propria condizione. Ancora una volta, un primo risultato è un innalzamento prolungato della consapevolezza e delle altre funzioni mentali. Questo è stato ben descritto da Samuel Johnson, secondo il quale, quando mancano una quindicina di giorni all’impiccagione, la mente diventa meravigliosamente concentrata. Nella nostra epoca, Levine osserva come “molte persone affermano di non essere mai state tanto vive come quando stanno morendo”(nota 19).

Il paziente quasi terminale la cui consapevolezza sia più vivida può sviluppare molti fenomeni psichici. Almeno alcuni di essi si rivelano quando lo stato mentale del paziente è per il resto normale, e quando gli effetti di droghe, di una scarsa pressione sanguigna, di squilibri dei fluidi e dell’elettrolito possono essere esclusi. A ogni modo, l’insonnia dovuta alla preoccupazione può ovviamente essere una causa concomitante. Alcune di queste superficiali “accelerazioni” non sono compresse in pochi secondi, come accade nel tumulto della breve esperienza di quasi morte.

Piuttosto, accadono in forma più subacuta. E ora, in momenti di grande intensità, il complesso delle funzioni sensoriali di un individuo diventa ricettacolo di apparizioni o visioni di stati paradisiaci. Inoltre, anche durante il sonno, i sogni del paziente diventano ricchi di simbolismi. Un esempio è dato dalla descrizione di Carl Jung dei sogni e allucinazioni che ebbe in ospedale, dopo il suo attacco di cuore (nota 20).

Molti sopravvissuti alla breve e acuta esperienza di quasi morte sono stati profondamente influenzati dal dramma attraversato. Allo stesso modo, sono rimasti impressionati i testimoni rimasti a vegliare accanto al letto di morte dell’amico o del parente. È comprensibile il fatto che questi due tipi di esperienze intime – quelle di prima mano e quelle di seconda mano – hanno suscitato tante interpretazioni esagerate da parte di un pubblico impressionabile, nei secoli passati. Oggi – per quello che vale – sono relativamente pochi gli scienziati che accettano che la vita continui “in un altro mondo oltre la tomba”. Ancora meno sono quelli secondo cui le esperienze di quasi morte costituiscono “un bagliore veritiero del futuro”. Ma gli scienziati sono scettici per natura: appena il 16% crede in qualche tipo di vita dopo la morte, in contrasto al 67% del resto della popolazione (nota 16).

Tuttavia, se si trovano di fronte a quella che sembra la morte vera, anche i neuroscienziati osservano che il loro atteggiamento può mutare. Quando il neurologo Ernst Rodin venne anestetizzato, sperimentò non soltanto la sensazione, ma la vera e propria certezza assoluta della propria morte. Solo in seguito, quando uscì dall’anestesia, fu in grado di riconoscere che tale certezza era un’illusione21. È possibile che alcune nostre certezze siano radicate nell’illusione? Questa è una lezione impressionante per tutti. E nessuna esperienza personale è in grado di distruggere lo specchio delle nostre illusioni tanto quanto la morte di tutti i vecchi costrutti dell’io.

“Atteggiamenti di morte lontana” e loro paralleli

La realtà è che quando tutte le vecchie finzioni dell’io si dissolvono, la morte perde il suo mordente terrificante. Alcune persone cominciano precocemente questo processo educativo; altre lo rinviano alla fine della vita. Questo secolo ha visto molte persone sane e normali – sia giovani che anziane – intraprendere il lungo cammino della meditazione. Col tempo, una serie di episodi comincia a diminuire la loro precedente paura della morte. Queste persone cominciano a comprendere di essere impermanenti e transitorie come le foglie di un albero.

Invecchiando, e forse diventando più sagge, acquisiscono un’altra prospettiva. In un certo senso, quest’ultima potrebbe essere definita un “atteggiamento di morte lontana”. Questo vuol dire che i meditatori più esperti stanno cercando di negare la morte? O che stanno semplicemente spingendo ancora più in là i loro vecchi concetti sulla morte? No. Come Hammarskjold, la stanno affrontando, accettando la sua ineluttabilità e interiorizzando la sua realtà con più calma.

I test di laboratorio confermano questo cambiamento di mentalità. L’idea della morte è molto meno disturbante per quei giovani che hanno già imparato ad aprirsi a stati alterati di consapevolezza. Difatti, parole attinenti alla morte provocavano solo una leggera reazione fisiologica (nel battito cardiaco e nella conduttanza delle pelle) nei meditatori buddisti seguaci delle tradizioni zen o tibetane. I meditatori avevano bassi punteggi anche sulla scala dell’ansia della morte8. Intervistati su quest’ultima, le loro risposte suggerivano che avevano già fatto a meno della nozione di un io personale. A quel punto, la morte non era più né un’ansia attuale né qualcosa di cui bisognava preoccuparsi nel lontano futuro.

In che modo queste persone avevano sviluppato un atteggiamento così coraggioso, “di morte lontana”? Esso rifletteva sia la loro educazione precedente finalizzata alla “morte dell’ego”, sia la concreta esperienza del fatto che l’io egocentrico era solo un’illusione. In più, avendo imparato a focalizzarsi sul momento presente, questi praticanti erano in grado di cominciare a interiorizzare e accettare tutto ciò che poteva avvenire in questo momento, affrontandolo e passando all’istante successivo. E poi, a quello dopo ancora…

Verso una morte migliore?

I soggetti che seguono pratiche meditative lentamente imparano a vivere giorno dopo giorno a livelli più essenziali di consapevolezza. Ma supponiamo di essere arrivati all’ultimo atto della nostra vita: ora, alla fine della vita biologica, può essere ancora utile lo stesso atteggiamento basilare di attenta introspezione? Una persona può imparare a morire in modo migliore? E se sì, in che modo?

A questo proposito, alcuni pazienti ci raccontano che la malattia terminale è la loro ultima, grande maestra. Adesso devono superare il corso finale, richiesto a tutti. Per alcuni, esso diventa una sorta di “corso accelerato” all’ultimo minuto, il più rigoroso di tutti i ritiri religiosi. Uno slancio naturale distrugge tutte le finzioni, riducendo la vita ai suoi componenti essenziali. Per questi pazienti, la morte diventa l’ultima opportunità per lasciare cadere le vecchie convinzioni profonde e artificiali. Alla fine, possono accettare tutto ciò che arriva, vivendo intensamente ogni istante.

Grazie alla chiarezza derivante da questa nuova profondità, molti pazienti alla fine cominciano a capire la vita. Alcuni scoprono che la sofferenza passata e il disagio attuale hanno radici nelle terrificanti invenzioni dei loro vecchi costrutti egoici. Per certe persone, la possibilità di usufruire di queste nuove, profonde intuizioni, sembra facilitare gli ultimi istanti, aiutandole a morire “di morte migliore”. Inoltre, le intuizioni più profonde possono portare alcuni pazienti così avanti sul cammino spirituale da far loro sperimentare lo stato di apertura totale dell’Essere Assoluto che sembra risiedere al di là (nota 4).

Il racconto della morte di Yaeko Iwasaki, vero e commovente, è un raro esempio di questa evoluzione. Questa seguace del buddismo zen, all’età di venticinque anni, seppe di avere solo cinque giorni prima di soccombere alle complicazioni di una malattia alle valvole del cuore. Ma la sua totale concentrazione durante questi ultimi giorni in cui fu costretta a letto le permise di accedere a una serie di stati sempre più profondi, fino a raggiungere l’illuminazione autentica (nota 22).

Ogni giorno, ad altri capezzali – nelle case, gli ospizi e gli ospedali – un numero crescente di professionisti della salute assiste da vicino i pazienti morenti. Questi preparati direttori spirituali guidano i malati terminali, preparandoli non solo alle difficoltà, ma anche alle scoperte che potrebbero fare nella loro ultima esperienza di apprendimento. Per questi insegnanti, esiste un ovvio parallelo con i profondi cambiamenti che vedono accadere nei loro malati terminali. Cosa vedono? I pazienti lasciano cadere la paura della morte, dissolvendo una finzione dietro l’altra, affrontando la realtà a testa alta e accettando tutto ciò che viene. Molti di questi assistenti sono in grado di riconoscere questo processo. Lo hanno osservato dentro di sé, durante la loro lunga ricerca meditativa.

Quindi, in senso generale, le esperienze di apprendimento “a esordio tardivo” degli ultimi istanti di vita di una persona potrebbero cominciare ad assomigliare a eventi possibili anche molto prima, con altri mezzi. In realtà, come conclude Levine, “Gli stadi di smarrimento e morte sono chiaramente paralleli agli stadi di sviluppo spirituale” (nota 23).

Una prospettiva neurologica

Non so cosa intendi quando parli di Grande Mente e Piccola Mente. Prima di tutto, c’è il cervello. Jiddu Krishnamurti

Abbiamo considerato uno spettro di fenomeni. Esso va dalle esperienze di quasi-vita a quelle sul letto di morte. Le mitologie restano di conforto, ma molti lettori potrebbero essere curiosi di conoscere le spiegazioni biologiche di tali esperienze. È importante sapere cosa accade nel cervello durante questi episodi che mettono a rischio la vita? Sì. Ha importanza, perché le nostre ipotesi avranno conseguenze che potranno aiutarci a spiegare perché simili eventi accadono anche nel cammino spirituale.

Gli stati tendono a manifestarsi in sequenze. E le loro psicofisiologie si evolvono con il tempo. Quindi, innanzitutto, per affrontare i meccanismi base dell’attuale gamma di esperienze attinenti alla morte, dobbiamo disporre i loro insiemi di fenomeni in sequenza.

Iniziamo dalla caduta del giovane Darwin. Nel suo caso, si trattò di un’improvvisa caduta di appena due metri e mezzo. Tuttavia, l’immediato risultato fu una vivace cascata di eventi fisiologici. Il primo di questi rifletteva una rapida neurotrasmissione. Questa fase implica un impulso attraverso almeno due dei sistemi ascendenti di comunicazione nel cervello. Uno rilascia acetilcolina; l’altro aminoacidi eccitatori, come il glutammato. Scatta un processo parallelo. Dalla sua matrice sorge l’idea – non del tutto sbagliata – che il tempo “interiore” del cervello sia molto più veloce.

Questo crea la sensazione che gli eventi esterni si svolgono al rallentatore e con grande chiarezza. Si può anche pensare che nuovi impulsi possano entrare dal mondo esterno, e velocemente raggiungere la formazione ippocampale. Là, molto addentro nel lobo temporale, essi possono trovare le capacità dei circuiti ippocampali già stimolate da un processo ad alta velocità, che libera spezzoni casuali di vecchi ricordi in porzioni di tempo (nota 4).

Questo cervello è stato sconvolto. Circostanze avverse improvvise e pericolose stimolano eccessivamente molte sue cellule nervose. Il cervello in allerta passa da una velocità di elaborazione più lenta all’attuale superveloce. Nel fare questo, alcune delle sue più profonde reti di funzionamento possono essere spinte temporaneamente fuori fase. E tali sistemi dissociati – scissi durante improvvise transizioni dinamiche – diventano liberi di unirsi, brevemente, in nuove configurazioni fisiologiche. Le connessioni da e per l’ipotalamo sono importanti fonti di tali trasformazioni. Altrettanto può dirsi di molti gruppi di cellule nervose più grandi disposti in basso, nel tronco cerebrale, e delle loro estensioni superiori (nota 4).

Durante i primi istanti di un’esperienza di quasi morte, in un vasto numero di sinapsi nervose si verifica un tumulto. Esso libererà rapidamente, nel cervello, ondate dei potenti trasmettitori chimici del cervello. Tra essi, le sue ammine biogene (norepinefrina, dopamina, serotonina ecc.) e diversi peptidi (gli oppioidi endogeni, simili alla morfina: CRF, ACTH ecc.) (nota 14).

Gli impulsi che corrono lungo le più profonde vie nervose della vista possono dare la sensazione di un’avvolgente luce brillante. La neuroscienza non ha bisogno di chiamare in causa, come agenti produttori dell’«amorevole luce bianca», speciali forze elettromagnetiche provenienti da una fonte non specificata fuori dal corpo (nota 15). Accadranno poi altri eventi, i quali estenderanno la loro influenza fino al midollo. Qui, per esempio, vi sono le grandi cellule nervose del nucleo paragigantocellulare, sollecitate da una vasta gamma di stimoli pericolosi (nota 4).

Adesso diventa possibile immaginare in che modo un improvviso calo della pressione sanguigna – uno shock – può provocare, come effetto secondario, ulteriori risposte allo stress dentro il cervello. Infatti, se la pressione sanguigna della persona ferita dovesse calare, verrebbero stimolate anche alcune grandi cellule nervose di questo nucleo, come parte della reazione automatica del cervello per riportare il livello della pressione su valori normali. In pochi millisecondi, gli impulsi di questo nucleo paragigantocellulare spingeranno le cellule nervose del locus coeruleus a liberare la loro norepinefrina in tutto il sistema nervoso centrale.

Questa norepinefrina contribuirà a dare il via a un’altra serie di risposte allo stress da parte del cervello (nota 4). Tali intrinseche risposte allo stress influenzano le funzioni di vari livelli, tra cui molte che si attivano attraverso la parte ipotalamica del sistema limbico. È notevole, comunque, che la paura abbandona la consapevolezza durante le ultime fasi della tipica esperienza di quasi morte. Questo vuol dire che alcune fonti tradizionali della paura primaria, come quelle vicino all’amigdala, sono state direttamente inibite o non hanno più accesso alla consapevolezza.

I nostri antenati erano dei sopravvissuti. La sopravvivenza dipendeva dalla misura in cui riuscivano ad azionare processi ad alta velocità, evolvendosi in quell’esplosione di azioni supplementari in grado di eludere circostanze avverse. Questi antichi sistemi fisiologici restano i nostri alleati. Unendo le forze con altri livelli, aggiunti in seguito, le loro reti sono ancora capaci di creare nei cervelli moderni l’impressione che il tempo si espanda, così come lo spazio, nella chiarezza di un presente senza paura. La persona in pericolo percepisce “più” secondi, più tempo per compiere quei disperati, difficili sforzi per scappare.

In seguito, quando ogni ciclo biologico della vita si avvia alla sua inevitabile conclusione, accadrà un turbine di reazioni fisiologiche terminali. Da dove vengono i risultanti scenari psichici? Essi possono attingere alle grandi capacità immaginative poste al centro della psiche umana fondamentale. Qui, tutte le persone sono commediografi, romanzieri e sognatori “ad libitum”. Dobbiamo inventare qualcosa che abbia uno scopo, dal punto di vista umano, per ogni evento naturale sulla soglia finale della morte? Le nostre interpretazioni devono consistere in simboli e idee tratte dalle religioni istituzionali, dalla filosofia, la metafisica o i mondi dello spirito soprannaturale?

È tempo di tornare a una visione più semplice dei fenomeni mistici, specialmente di quelli che rientrano nelle ultime sequenze delle esperienze di quasi morte. Abbiamo ragione di credere che la maggior parte delle forme e contenuti di queste ultime saranno colorati dalla storia personale e dai sistemi culturali di ciascun soggetto (nota 16).

Oggi, tra i giovani e gli anziani che percorrono il cammino spirituale, molti praticano vari tipi di meditazione, formali e informali. Queste persone proveranno inevitabilmente interesse alle scoperte sui molti stati alterati qui descritti. Questo tipo di esperienze accade velocemente, durante circostanze non-meditative (ma in risposta a situazioni di pericolo) in soggetti che per la maggior parte non hanno mai meditato né assunto droghe psichedeliche. E chi percorre il cammino spirituale sarà curioso di sapere, inoltre, che anche tali esperienze “mistiche” a rischio, quando arrivano, possono all’inizio generare chiarezza, rinforzare i processi e dissolvere la paura, e in seguito produrre mutamenti durevoli e salutari nella personalità umana.

Un praticante buddista ha dei motivi in più per interessarsi al significato religioso o psicodinamico delle esperienze di quasi morte (note 24, 25)? Almeno dal punto di vista pragmatico della scuola zen, la domanda chiave non è: c’è vita dopo la morte? O: esiste la vita in qualche “oltre-vita”? L’accento, invece, è: come dobbiamo vivere questa vita, dopo la nascita, in questo istante, al massimo delle sue potenzialità? Non vivere in qualche sogno a occhi aperti; non cercare qualche illusoria “realtà virtuale”: ma vivere pienamente questa vita, “on line”, fino ai suoi momenti finali.

Note e riferimenti bibliografici.

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13. La parola “essere” va sempre valutata con cura. Uno stato di “essere assoluto” può anche riferirsi a uno speciale, avanzato stato alterato di consapevolezza.

14. J. Owens, E. Cook, I. Stevenson (1990): Features of “Near-death Experience” in Relation to Whether or Not Patients were Near Death. “Lancet” 336:1175-7 (La maggior parte dei pazienti in questo gruppo ha sperimentato funzioni cognitive superveloci”).

15. Nella nota 4 del capitolo 86 viene ipotizzata una spiegazione alternativa per l’«amorevole luce bianca». M. Morse, P. Perry (1992): Transformed by Light, New York, Villiard.

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21. E. Rodin (1980): The Reality od Death Experiences. A Personale Perspective. “J. Nervous & Mental Disease” 168:259-63.

22. P. Kapleau (1967): The Three Pillars of Zen. Boston, Beacon Press. 269-91.

23. S. Levine (1982): ibid. 234.

24. B. Greyson (1983): The Psycodinamics of Near-death Experiences. “J. Nervous & Mental Disease” 171:376-81.

25. Il lettore interessato troverà una recente discussione sull’esperienza di quasi morte in “The Journal of Near-death Studies” 16 (Fall, 1997): 3-95, interamente dedicato alle origini biochimiche e alla fenomenologia di questi eventi.

Spaventata? Di chi dovrei essere spaventata?
Non della Morte, perché chi è la Morte?
Il facchino della casetta di mio padre
Lo ignora quanto me.
Emily Dickinson. Time and Eternity.

James H. Austin è Professore Emerito di Neurologia nella Facoltà di Medicina dell’Università del Colorado, a Denver.

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Stephen Levine. Chi muore? Quando si muore. Una ricerca sul vivere e sul morire consapevoli. Sensibili alle Foglie. 2002. ISBN: 888632376X

Carl Gustav Jung. Ricordi, sogni, riflessioni. Rizzoli. 1998. ISBN: 8817112798

Philip Kapleau. I tre pilastri dello zen. Insegnamento, pratica e illuminazione. Astrolabio. 1981. ISBN: 8834007050

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Stanislav Grof. The Human Encounter With Death. Bookthrift. 1977. ASIN: 0525129758

James H. Austin. Zen and the Brain: Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. MIT Press. 1999. ISBN: 0262511096

James H. Austin. Chase, Chance, and Creativity : The Lucky Art of Novelty. MIT Press. 2003. ISBN: 0262511355

George Gallup. Adventures in Immortality. McGraw-Hill. 1982. ASIN: 0070227543

Edgar D. Mitchell. Psychic Exploration : A Challenge for Science. Perigee. 1976. ASIN: 0399113428

Kenneth Ring. Heading Toward Omega: In Search of the Meaning of the Near-Death Experience. William Morrow.1984. ASIN: 0688039103

Melvin Morse, Paul Perry. Transformed by the Light: The Powerful Effect of Near-Death Experiences on People’s Lives. Villard. 1992. ASIN: 0679404430

Copyright originale James H. Austin, per gentile concessione dell’autore. Tratto da Zen and the Brain, pubblicato da MIT Press, http://mitpress.mit.edu/0262511096
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.

40 Responses to “Esperienze prossime alla morte”

  1. eckhart ha detto:

    …oppure ,più semplicemente, diamo alla parola morte il significato più appropriato, che è proprio quello di cessazione di uno stato, lasciando i pensieri sulle albe e tramonti alla nostra immaginazione…. :-)

  2. Fabrizio Bartolomucci ha detto:

    Il problema è nell’uso di parole che hanno già una connotazione definita. Stesso problema che si incontra con i termini “compassione”, “rinuncia” o “non attaccamento” che di solito vengono affrontate dai maestri, soprattutto nei confronti di un pubblico sconosciuto, con molta circospezione. Tuttavia, mentre questi termini possono avere un uso, se non altro dalla loro connotazione semantica, il termine ‘morte’ ritengo sia assolutemente evitabile, se non per raccogliere l’attenzione di ascoltatori distratti.

  3. watts ha detto:

    ho l’ impressione che in tutto quanto scritto sopra ci sia un che di “too much mental” .
    Mollare la “presa” concettuale mi sembra l’ unica strada possibile anche se ardua in questo contesto in cui il silenzio puo’ essere supplito saltuariamente solo da parole “essenziali” … se mai ci fossero.

  4. eckhart ha detto:

    Sei tu, Alan ?

    :-))))))))

  5. Gianni De Martino ha detto:

    _ _
    Ben detto ( a mio avviso). E’ davvero difficile, direi impossibile pensare la morte con la scrittura. Semplicemente perché la morte introduce nel vivente un’alterità irriducibile.

    Tutto o niente. Entra la morte, ed è come se entrasse il Fuori, o un Tu. “ Signore ”“ scriverà per esempio Blaise Pascal – non ti prego per la mia salute né per la mia malattia, né per la vita o la morte, ma invece che tu voglia disporre della mia salute e della mia morte per la tua gloria e per la mia salvezza. Tu solo sai ciò di cui ho bisogno. Tu solo sei il Signore. agisci secondo la tua volontà”.
    In tal senso, la morte è un fatto mentale e un limite.
    il pensiero della morte non pensa la morte, ma il limite del pensare.

    E al limite si va tra culla “e” bara , fra due pulsioni. Così, in un giro senza fine di travestimenti multipli . « Finché ”“ presto o tardi, forse ”“ no, non forse, certamente la Cosa accadrà ».
    Subito o mai !
    « La morte – notava Vladimir Jankèlèvitch – non è il termine ultimo di una serie moribonda, ma è davvero fuori serie ».
    Per noi – creature tagliate dal « prima » e dal « dopo » – sarebbe il fulmineo bagliore dell’istante.

    Forse solo la musica, o lo spazio bianco tra le parole e i suoni, può darci, in maniera indiretta, la prossimità della morte.
    La morte sarebbe allora l’intuizione ( più o meno deprimente) che io – “carne prudente, impaurita e che invecchia” – non sono il creatore della vita. E che un soffio, una pulsante nota musicale articola il corpo incarnato in una parola che mi pensa attraverso il mio corpo ( inaccessibile alla mia presa).

    Nel punto ”“ intenso e feroce ”“ in cui la vita va al di là, si può allora incontrare l’estasi o anche il terrore … un attimo prima del black out.

    Dove non c’è dove e la voce cade fra le pieghe del mistero, solo meraviglia. Chi potrà mai testimoniarlo ?

    Insomma, il pensiero della morte non pensa la morte, ma il limite del pensare.

    Come dire : « Sei tu, Signore ?… ». E chi, o cosa, se non l’eternità della Vita, custodisce la sua parte nell’annientamento del vivente ? E ancora : se vita e morte qui hanno uguale durata, Chi o Cosa riprende tra vita e morte tutto quello che è perso ?

    Al limite, potrebbe anche darsi che questa Cosa che diamo “morte” non sia neanche una cosa… benchè possa apparire, con le parole del poeta, ” un modesto ruscello a lungo calunniato”.

    Sei tu, passante ?
    … Al limite non si sa. Si va. E dove il pensiero fabbrica il famoso abisso perfetto, la Vita – grazie soprattutto all’Amore, l’anestico più naturale – lo scavalca.
    “La morte come la nascita fa parte della vita, camminare consiste sia nell’alzare il piede sia nel posarlo” (Tagore, Uccelli Migranti, CCXVII).

    Buona vita, anzi vita buona a tutti i migranti. E ai passanti…:-)

  6. Gianni De Martino ha detto:

    ERRATA CORRIGE
    Al limite, potrebbe anche darsi che questa Cosa che chiamiamo “morte” non sia neanche una cosa… benchè possa apparire, con le parole del poeta, ” un modesto ruscello a lungo calunniato”.

    IN LUOGO DI
    Al limite, potrebbe anche darsi che questa Cosa che diamo “morte” non sia neanche una cosa… eccetera.

  7. Watts ha detto:

    “Ma la morte altro non è che l’altra faccia dell’energia, è il riposo, il non esserci nulla attorno che produce l’esserci qualcosa intorno, proprio come non può esserci solidità senza lo spazio o lo spazio senza solidità.
    Quando ti accorgi di ciò e ti rendi conto che «plus ça change plus c’est la même chose», come dicono i francesi, ( e ….Tommasi da Lampedusa (n.d.r.)) , che sei davvero un aggregato di quest’unica energia e che non c’è nient’altro, ma che tu sei quello, e che per te continuare ad essere te stesso sarebbe una noia mortale, perciò le cose sono predisposte in modo che, dopo un po’, tu smetta di essere te per ritornare come un altro del tutto diverso… ”
    ” A.W. : Una conferenza sullo Zen”

  8. eckhart ha detto:

    e’ sempre l’ego che non vuole morire.. :-)

  9. Gianni De Martino ha detto:

    Non è bizzarro che pur accorgendosi di essere “un aggregato di quest’unica energia” , e quindi una delle miriadi di forme impermanenti e vuote di esistenza intrinseca, nella maggior parte dei casi uomini, donne e bambini non vogliono morire ?

    Evidentemente, in qualche spazio originario, “morte” non è l’ultima parola…

    Mmm… perlomeno così pare al desiderio, più che al bisogno, di uno spazio, forse di un oltrespazio (e un ultrasuono) di non-morte. :-)

  10. watts ha detto:

    Vivere e morire forse sono la stessa cosa, ed e’ averle separate la fonte della piu’ grande sofferenza.
    Trattiamo la morte come un evento che accadrà alla fine della vita, pur vedendo che essa è invece sempre presente.
    Avendo paura di quella cosa che chiamiamo morte l’abbiamo separata dalla vita relegandole entrambe in compartimenti stagni separati l’uno dall’altro da spazi immensi.
    Questo processo sembra oggi piu’ che mai evidente nella intima struttura della societa’ e del pensiero dominante.
    Ma l ‘io esiste solo a causa dell’identificazione con qualcosa: siamo ciò con cui ci siamo identificati. E’ di “questo” che siamo fatti, e senza di “questo” non siamo. Ma, a ben vedere, “questo” e’ costituito solo da una massa di desideri contraddittori, un groviglio in cui il dolore supera di gran lunga la gioia .
    La mente deve essere ripulita da tutto ciò che ha afferrato nel suo bisogno di trovare certezze.
    Solo a questa condizione la “cosiddetta” morte non esistera’ piu’.

  11. Gianni De Martino ha detto:

    Non esisterà più ? Certo, “pulire la mente” dalla polvere delle certezze e i vortici delle “negatività” è una giusta metafora per indicare la meditazione: un lavoro che si svolge ponendo l’attenzione nel profondo e il manifesto, tra la forma e il vuoto.

    Naturalmente la polvere, invisibilmente, ogni giorno o notte si riforma. Non si smette mai di spolverare, perché vasto è il regno della polvere! Lo nota J. Gordon Ogden, in “The Kingdom of Dust”, quando osserva che a differenza dei regni terreni, il regno della polvere non conosce limiti, tanto che persino ” le più lontane stelle nello spazio infinito altro non sono che gli avamposti di un regno infinito quanto lo stesso universo”.

    Ma se tutto non fosse altro che polvere roteante ( sia pure polvere di stelle), non so se basterà solo mettersi nella condizione di far pulizia, affinché in un futuro più o meno lontano la ‘cosiddetta’ morte non esisterà più. Perché, nel frattempo esiste ?

    Parrebbe proprio di sì. Anzi quanto a pulizia la “cosiddetta” morte sembra una vera specialista: brava & veloce com’è a ripulire l’aria da ogni forma di vita, la morte potrebbe essere la titolare della più grande agenzia di pulizia che esista sul pianeta. Come dire : ” PULITRICE, SIGNORA. HA BISOGNO DEL MIO LAVORO?”.

    Lo dico, anzi lo scrivo tra culla e bara, all’ascolto di due pulsioni, ripulendo i corridoi del tempo tra un Dentro dove non abito e un Fuori impossibile.

    Ma tant’è, inutile tirare qui troppo la corda (della mente). E star sempre lì a ripulire, anche la domenica, credendo che solo a condizione di far pulizia la “cosiddetta” morte non esisterà più, e tutta questa polvere, questo gusto di cavolo ammuffito e un odore di marcio invisibile cesseranno di rovinarci la vita.

    A quando la spruzzatina di qualche detergente anti-entropico risolutivo? “Vedete – ghignava con garbata ironia il maestro pazzo & fuso san Philip Dick nel fatidico ’68, dopo essersi fatto di acido – Vedete, questi processi di deterioramento costituiscono un’esperienza normale per molti semi-vivi, particolarmente nel caso in cui si fondono parecchi sistemi di memoria, come succede nel vostro gruppo. Ma con Ubik nuova formula, più attivo che mai, tutto è cambiato!” Tutto ? Non proprio: resta sempre qualcosa di irriducibile all’azione dei miracolosi prodotti anti-morte.

    Quanto all’ego “che non vuole morire”, beh mi pare comprensibile che abbia qualche difficoltà a sgombrare il campo.

    Il fatto ( “fatto”, come si dice nel gergo dei drogati) è che non appena sente la parola “morte”, il refrattario si gratta le palle, o le ovaia, a seconda. Oltre ad essere superstizioso e sessuato, il cosiddetto ego coglie la cognizione della morte come un’area di frontiera, pericolosa dal punto dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato.
    Si tratta di un’area, o meglio di uno strato percettivo, emotivo e cognitivo estatico che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile.

    D’altra parte, come nota il compianto Elvio Fachinelli, nella sua sobria e densa “La mente estatica”, ” sarebbe assurdo criticare o irridere questo accantonamento, che è stata una necessità per la maggior parte degli esseri umani”.

    Si può dire, ora, che questa necessità viene meno? e che possiamo far fuori, insieme all’ego, anche l’io personale, ben individualizzato ?

    Se si risponde di sì, allora la grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo.” Sarà – come profetizzava Gilbert Keith Chesterton, in “Eretici”, una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermare. E una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli”. Sì, tutti svegli e ben ripuliti da ogni odore di vita !

    Certo, davanti all’infinito è più dignitoso presentarsi bene. Ma chi ha detto che occorre presentarsi anche puliti? Probabilmente è quel che dicono gli infermieri, evidentemente hanno un loro protocollo terminale. Insomma, mentre il citrullo va’ all’infinito, ifermieri, parenti, amici e conoscenti si chiedono: “Cosa ne facciamo del corpo?”.

    Eh, si vede che, nonostante tante pulizie, alla fine tutti lasciamo una macchia. Sarebbe la fresca traccia di un morto che puzza e dice: ” Quando si giace nella bara, il fatto che rende la cosa tanto brutta è che la tua mente è viva, ma il corpo no, e tu percepisci questo dualismo” (P. Dick, da “In senso inverso”).

    Svegli tra culla e bara ? Sì, come nel Moratorium ”˜Diletti Fratelli’ di Zurigo, l’istituto leader del mercato della conservazione di corpi umani mantenuti in uno stato di vita minima. Capita quando si crede di poter portare al mercato la sostanza del mondo e il Rimedio miracoloso, nell’epoca della mercificazione del divino.

    Lo so, mi ero ripromesso di non tirare troppo la corda ( della mente, sia pure psicoattiva). Ma continuo a pensare alle pulizie…E a pulire qua e là l’Universo , naturalmente.

    Mentre giri in tondo in questa scintillante metafora che è “Universo”, in attesa, senza aspettare, nel caso abbiate qualcosa per illuminarloi, chiamatelo pure Sisifo, questo ego, eccetera. Che gli importa dell’ego? o del suo nome proprio ? Sembrano spilli, ragnatele all’angolo dell’occhio. Forse a non voler morire non è sempre e solo l’ego tanto calunniato, forse c’è dell’Altro.

    In ogni caso, “pulire la mente” dalla polvere delle certezze e i vortici delle “negatività” e incrementare fattori positivi come fiducia, compassione, coraggio eccetera è una giusta metafora per indicare la meditazione: un lavoro il cui punto focale è la mente e che si svolge ponendo l’attenzione nel profondo e il manifesto, tra la forma e il vuoto, eccetera.

    A meno che non accada un miracolo. Un miracolo simile alla Grazia, al tocco lieve e immacolato di un Angelo. E ci si ritrovi improvvisamente altri, come pagina di libro tradotto in un’altra lingua – una lingua angelica, che altro?

    Nell’attesa, non inerte, dell’Angelo e del suo fulmineo bagliore ad ogni istante nuovo, sorgente ed eterno come eterni sono la Vita e l’Amore che credevamo perduti per sempre.

    Chissà perché sembra sempre troppo presto, troppo tardi per una buona Resurrezione generale. Così – a meno di non fare i disoccupati o i divini giullari con spazio di non-morte e illuminazione incorporati – costantemente dobbiamo lavorare. E tutti i giorni pulire non solo denti e viso, tavola e cucinotto, disco e pc, ma anche la mente, la tomba vuota e il parquet. :-)

  12. watts ha detto:

    Ma forse nello zen piu’ maturo non e’ neanche piu’ il caso di ripulire “lo specchio-mente” perche’ questo non esiste: e’ anch’ esso una pura costruzione mentale, come sono pure costruzioni mentali le varie visioni e rappresentazioni della morte che nei secoli l’ uomo ha elaborato, di cui diro’ fra poco.
    Si racconta che in una famosa e …..anticipatoria “gara di poesia” indetta dal quinto patriarca Il monaco ritenuto più sapiente di tutti, davanti al quale nessuno ebbe l’ardire di comporre propri versi , scrisse sul muro questi versi:

    “Il corpo è come l’albero della Bodhi
    e la mente è simile a un limpido specchio;
    con cura lo ripuliamo di ora in ora
    per timore che sopra vi cada la polvere”.

    La poesia , come e’ noto, fu elogiata dagli altri monaci, ma il quinto patriarca non si convinse della realizzazione vissuta da Shen Hsiu, il monaco più sapiente.
    Il rozzo Hui Neng , passando per il corridoio dove era stata scritta questa poesia, se la fece leggere da un altro monaco e poi gli dettò questi altri versi, che furono scritti a fianco alla precedente poesia:

    “Essenzialmente la Bodhi non ha albero
    e nemmeno esiste alcuno specchio;
    poichè dunque è tutto vuoto fin dall’origine,
    su cosa può cadere la polvere?”
    E vinse il concorso e l’ investitura

    Anche le varie rappresentazioni mentali e le varie visioni collettive relative alla morte sono nell’ ambito delle costruzioni mentali che nulla hanno a che fare con la morte vera, se mai questa esista come realta’ concreta
    L’ immaginario medioevale, in ambito cristiano, e’ ricco di riferimenti alla morte, che viene sempre trasfigurata in immagini angosciose.
    Ad es il Trionfo della morte non e’ una metafora della vanità ma dell’espressione di un’angoscia, paura della fine, paura del giudizio.
    Intorno al 1400 in Germania nascono le prime Ars moriendi (manuali di preparazione religiosa alla buona morte). Qui si fronteggia il terrore del momento del trapasso, dell’esperienza dell’agonia. In questo contesto, la cura della tomba e le disposizioni testamentarie traducono l’angoscia che l’idea della morte provoca: dalla costruzione e decorazione di una cappella al come si svolgeranno le esequie, fino ai lasciti necessari a garantire la manutenzione del sepolcro e l’esercizio di orazioni commemorative.
    Ma, infine la morte non è più il momento del giudizio, ma semplicemente la morte fisica: cadavere e putrefazione, la morte macabra. Ancora: l’immagine della morte mantiene la sua terribilità, ma perde quella sorta di funzione consolatrice legata alla liberazione dalla vita intesa come peccato.
    Si tende ad interpretare nel cadavere decomposto o nella mummia, segno evidente di un orrore per la morte, l’espressione di un forte amore per la vita; una prova di questo sta nel fatto che il disgusto verso la decomposizione corporea non appartiene solo al momento della morte ma anche a quello della vecchiaia e della malattia. Si parla dell’associazione tra morte, individualità e putrefazione. A questo decadimento sono associati l’impotenza ed il fallimento (e per contro la rabbia e l’attaccamento alla vita, alle cose e agli esseri posseduti), ed è a questi motivi che si ricollega il “senso del macabro”.

    Il superamento della morte macabra prenderà presto due diverse strade. Da un lato si ha un processo di astrazione e banalizzazione, al cadavere si sostituisce lo scheletro, e lo scheletro stesso si scinde in elementi separati e ricomposti “artisticamente”: crani, tibie, ossa incrociate. Dall’altro lato la rappresentazione della morte vera e realistica, non avverrà più nei funerali o nelle tombe ma piuttosto nell’immaginario: quello dell’erotismo macabro e del morboso
    La spiegazione di questo cambiamento viene accostando fra loro due trasgressioni alla vita regolare e ordinata in società: l’orgasmo e la morte. La morte si avvia in tal modo ad essere definitivamente sottratta alla sfera della vita quotidiana, dell’ordine naturale delle cose: si rompe l’antica familiarità fra l’uomo e la morte di cui l’ umanita’ soffre ancora oggi.

    Ecco come la morte diventa uno stereotipo angosciante in tutta la visione religiosa di orientamento cristiano e successivamente in quello cattolico.
    Di queste rappresentazioni risentiamo tutti noi occidentali ed anche l’ amico De Martino quando afferma:

    “ma non sempre la morte è veloce. Nella maggior parte dei casi non è neanche “dignitosa”, “dolce” o addirittura così “gioiosa” come ci piace immaginarla. Insomma, morire resta pur sempre uno schifo”

    e ancora
    “Eh, si vede che, nonostante tante pulizie, alla fine tutti lasciamo una macchia. Sarebbe la fresca traccia di un morto che puzza e dice: ” Quando si giace nella bara, il fatto che rende la cosa tanto brutta è che la tua mente è viva, ma il corpo no, e tu percepisci questo dualismo”

    Ma la morte e’ sempre rappresentazione che certamente cambia nelle varie epoche della storia , ma resta pur sempre rappresentazione di qualcosa che e’ nella mente dell’ uomo , non nella realta’.
    A questo proposito gli approcci piu’ grandiosi e lucidi , oltre a quelli dello zen, sembrano essere a me quelli degli epicurei e degli stoici della storia antica.
    Diceva Seneca duemila anni fa…
    “Tu, invece, preparati ogni giorno a lasciare serenamente questa vita a cui tanti si avvinghiano e si aggrappano, come chi è trascinato via dalla corrente si aggrappa ai rovi e alle rocce. I più ondeggiano infelici tra il timore della morte e le angosce della vita: non vogliono vivere, né sanno morire. Abbandona ogni preoccupazione per la tua esistenza e te la renderai piacevole. Possedere un bene non serve a niente se non si è pronti a perderlo.”
    Diceva Epicuro duemila anni fa o giu di li……
    “…abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l’inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell’immortalità.
    Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.
    La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
    Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.”

    Ave atque valete

  13. Gianni De Martino ha detto:

    Certo, non conviene pensare a ciò che potrà accadere in futuro se questo implica un lutto anticipato e la rovina della propria serenità presente. Ai fini pratici, un atteggiamento materialistico ed epicureo non è da sottovalutare. Se proprio occorre parlare di quella Cosa, vorremmo discuterne razionalmente. Magari dietro un paravento.

    Eppur si muore. Accade quando nella solita routine entra il Fuori impossibile. E il Dentro, dove non abito, è tutto come un gas o i riflessi di un vecchio armadio in una opaca sfera di cristallo, difficile da descrivere.

    E’ da giorni che ci penso. Tutto quello che posso dire è che oltre che distruzione, spaesamento e angoscia, la morte è “anche” rappresentazione, un fatto mentale e un limite. Altri direbbero la morte una specie di soffitto nella testa, che impedisce al pensiero di elevarsi. Affermare però che la morte si riduce a una rappresentazione più o meno deprimente e che “ non è nella realtà”, potrebbe suonare come una fuga, sia pure soft, dal fatto che siamo in un corpo. Vogliamo dire in una carne più o meno prudente, impaurita e che invecchia?

    Indipendentemente dalla rappresentazione o da quell’ “invenzione” tutta cristiana che chiamiamo carne, sembra non potersi evitare la morte. Quel che è fisico, quello che è biologico non può durare eternamente: consuma, degrada, diventa rigido come un baccalà e ritorna allo stato di materia inanimata. Siamo polvere ( sia pure polvere di stelle, ovviamente ) :-)

    Paradossalmente, oltre allo scheletro, non sempre, qualcosa rimane: il pensiero di Seneca o del vecchio Epicuro, per esempio. Eccoli ancora qui sulla breccia dopo duemila anni. Senza dubbio sono qui grazie all’istituzione e all’industria culturale, in cui saremmo portati a vedere ”“ al seguito della lezione ( e la garbata ironia ) del compianto Elvio Fachinelli ”“ le eredi legittime di quel mondo degli antenati che hanno un’importanza fondamentale nei gruppi arcaici, quali li conosciamo attraverso le descrizioni tramandate, i ritrovamenti archeologici e i resoconti etnografici.
    E’ attraverso la negazione della morte individuale e il lavoro della lutto e della cultura che i singoli morti vengono riassorbiti nell’unità dei morti-viventi che ci governano, continuando a far parte del nostro gruppo.

    Ma non è perché sono così vecchi che Seneca ed Epicuro sono degni di venerazione. Quei nobili morti-viventi continuano ad insegnarci che chi ha eccessiva paura della morte teme anche la vita, e che occorre essere intrepidi. Così, se non con un approccio zen, perché non finire come i saggi di una volta?

    Non sarà esattamente qualcosa di così “grandioso e lucido” come vogliamo immaginarlo, ma nascondere una macchia sul pantalone (magari troppo largo, di quelli in dotazione all’ospedale ) e dare un senso filosofico alla morte è più dignitoso di trasformarsi, per caso, in un mucchietto di spazzatura piagnucolante. Insomma, con gli stoici, gli epicurei e il nostro caro gobetto Giacomo Leopardi, auguriamoci che il naufragio sia perlomeno “dolce”!

    Namaste. Ave atque valete

  14. watts ha detto:

    ma non c’ e’ nessun naufragio, nessun “mucchietto di spazzatura piagnucolante” ecc.
    Nessuno si e’ mai staccato “realmente” dal “Padre” ! (il samsara e il nirvana sono la stessa cosa!)

  15. Gianni De Martino ha detto:

    Sigh! Certo che no! … Nessuno è mai nato, mai morto, neanche il mio gatto Sardina, sigh!, e non c’è nessun naufragio, né amaro né dolce.
    Al massimo qualche tempesta (samsarica & nirvanica ) in un bicchier d’acqua… Il naufragio allude alla corrispondenza avvertita dal Leopardi, e i lettori, tra il quasi nulla della sua voce e questo “infinito silenzio”, questa immensità in cui s’annega il pensiero…

    Il pensiero nasce, come noi, per amare e morire… e naturalmente non c’è nessun naufragio – se non forse la stessa vuota tempesta che anche Shakespeare vide nella testa dell’idiota e Marinetti nel rombo dei motori assassini .
    Sigh! Chissà quando finirà, se mai finirà, questo canto di morte tra samsara e nirvana…

    P.S. A proposito di “stessa cosa”, mi viene in mente un modo di dire napoletano che dice: “Simme tutte purtualle” .
    ll modo di dire, molto usuale, e divertente, si riferisce a un episodio che vide degli stronzi che , usciti piuttosto storditi da un canale (samsarico) , si ritrovarono a galleggiare insieme a un carico di arance caduto in mare ( le arance, “purtualle”, prendono il loro nome dal paese di origine, il Portogallo).
    La vicinanza, in alto mare, degli stronzi con i frutti fece esclamare allo stronzo più illuminato: “ Ah, ecco cosa siamo: simme tutte purtualle! ” Naturalmente si trattava di un abbaglio nirvanico. Rida chi può. :-) Sigh!
    … Sigh! Sarà un caso di emergenza personale, ma non riesco a rallegrarmi, sigh!, come uno gnostico dell’Adelphi , di veder passare il mondo. Sigh!
    Certo, la mia mente è un uovo bollito e il padre e la madre ( vacuità e forma) sono molto gentili… Ma non sarà certo il pensiero di Shunya e Shunyata a non far morire uno a uno i miei gatti, parenti, conoscenti e amici: al massimo una tempesta samsarica & nirvanica in nella ciotolina di plastica azzurrina dove Sardina non berrà mai più…sigh! sigh!

    Eh, per dire che non esiste la morte occorre un cuore d’acciaio, vale a dire un cuore di poetessa, di ex arancione o di cieco illuminato.. . La cara Sardina, il “mio” gatto, non si sarà mai staccata dal “Padre” ( ci sarà pure un Padre dei gatti, ma questa volta ha proprio sbagliato ). Accettare i limiti è intelligenza. Ma perché me l’ha tolta? Scorrete, lacrime ! Sigh!

  16. Gianni De Martino ha detto:

    CHE COSA ACCADE NELL’ATTIMO IN CUI LA COSCIENZA SI ESTINGUE
    Ultimi “pensieri” di Elémire Zolla che faranno parte dei “Quaderni” che la vedova, la studiosa di estetica Grazia Marchianò, sta raccogliendo fra le sue carte: riflessioni e intuizioni che Zolla annotava periodicamente sui suoi taccuini personali.

    “L’estinzione”

    Fino a qual punto la coscienza si estingue? O, che cosa avviene della propria persona nel corso di allucinazioni che portano al deliquio? Insufficienti le risposte consuete.
    Si vorrebbe dare una replica netta, e si parla di manifestazioni distinte: la consapevolezza rimane intatta in mezzo a ogni specie di travedimenti ovvero sparisce e dopo non resta nessun ricordo della trance subìta.
    E’ vero, sussistono questi due estremi, ma quasi sempre trepida e fluttuante è la realtà, il suo ricordo tremula, è arbitrario sempre, la ricostruzione degli eventi d’una visione.

    Già un semplice sogno è difficile da rammentare salvo allo scatto del risveglio: assumerlo nel linguaggio, vuol dire falsificarlo. E’ arduo dire fino a che punto un evento di sogno fa un’immagine e fino a che punto una parola commossa.

    Occorre accettare il più delle volte l’esistenza onirica, la trance e in genere l’allucinazione sciamanica come più vera del vero, un universo sottratto alle nostre classificazioni, impervio alle nostre categorie, oscillante, svanente ma nello stesso tempo fulgido e chiaro, contradditorio, atteggiato nell’uno e nell’altro senso che durante la veglia si escludono. In sanscrito esiste una parola che lo denota: vikalpa.

    E’ fiabesco, ma connette verità che eludono la nostra attenzione di veglia, di cui forse il nostro inconscio o certi animali si avvedono. Si estende come un velo trepido, ma può imporsi come più netto del vero. (da Il Corriere della Sera – 26 maggio 2002)
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    Così, nel punto, intenso e feroce, in cui la vita va al di là (dell’io e del mio), ognuno, ognuna si approssima al Non-conosciuto… Da qui l’angoscia e le tante storie che ci raccontiamo, immaginando uno spazio di non-morte ( Cristo, se Gesù avesse davvero vinto la morte sarei cristiano, anzi cattolico, apostolico & romantico ! )
    Per fortuna o sventura, non avendo realizzato shunyata, resto tagliato dal « prima » e dal « dopo ».
    L’infinito ? Seee, te piacerebbe ! va’ citrullino mio ! Co sto cervello che cammina pure troppo e te sta a scoppià er cranio, pe’ quanto macina nel vuoto e il dharmakaya, li mortacci sua…
    Un inchino davanti all’infinito che è in ogni creatura e davanti al ricordo, al ricordo di ogni uomo, donna, bambino, gatto, alba, tramonto e pioggia caduta a primavera sulla terra scura…

    Lo chiamano il lavoro del lutto
    Sia nel samsara sia nel nirvana.
    Possa tu sgranocchiare amrita
    Nel paradiso dei gatti.
    Ciao, cara Sardina! Chi vive ?

  17. watts ha detto:

    Mi spiace per la cara Sardina,
    ma per restare al citato Elémire : ” il manifestato non e’ , esiste soltanto rinviando all’ essere possibile non manifesto, fuori di tempo e spazio ; attimo e punto non stanno in tempo e spazio ma ne sono il presupposto; assistendo ad un film , di fatto vediamo, uno dopo l’altro , fotogrammi fermi ….. l’ essere e’ possibile e l’ esistente E’ soltanto nella misura in cui rinvia all’ essere infinito come sua essenza. Gli enti manifestati dall’ essere , di per se, non hanno essere.” ( La Filosofia Perenne. Presentazione).

    Non sono proposizioni inaccettabili per il “cuore” umano. Hanno in se una carica “consolatoria” (ma non illusoria) molto piu’ dirompente che l’ augurio di un naufragio “perlomeno dolce”

    “una purtualla dal cuore di ex arancione”

  18. Gianni De Martino ha detto:

    Sì, grazie! Saremmo vuoti di esistenza inerente, come il povero Sardina… Sigh !

    P.S. Posso regalarti una citazione ? – Me l’ha mandata poco fa l’amico dei tempi di “Re nudo” Walter Binaghi:

    “… Per grande che possa essere il dolore di una perdita, subito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto piu siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita piu irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa.

    (…) Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita (…).

    La fatica di far passare la persona cara che è passata in senso naturale, cioè senza il nostro sforzo culturale, costituisce appunto quel vario dinamismo di affetti e di pensieri che va sotto il nome di cordoglio o di lutto: ed è la varia eccellenza del lavoro produttivo e differenziato a tramutare lo strazio – per cui tutti gli uomini rischiano di piangere” ad un modo” – in quel saper piangere che reintegra l’uomo nella storia umana”.

    (Ernesto De Martino, “Morte e pianto rituale”, Boringhieri, cit. da Valer Binaghi, in LA VITA COME PROGETTO, DESTINO E NARRAZIONE
    > http://valterbinaghi.wordpress.com/2009/03/09/lorrore-la-cura-le-esequie-e-lopera-di-v-binaghi/)

    ciao, namaste

  19. Gianni De Martino ha detto:

    …ah, dimenticavo !
    L’essere non manifesto, fuor di tempo e spazio, sarebbe il famoso “deus abscunditus” ?

    Si racconta che ogni tanto – dai tempi di Shiva a quelli del Cristo – scende sul pianeta, incarnandosi in qualche teofania.
    Insomma, scende “quaggiù” e compie qualche sacrificio per insufflare un po’ di essere in chi non ha essere e favorire quell’elevazione del cosiddetto “piano di coscienza”, di cui peraltro quando eravamo hippies si andava mormorando in giro per i rigagnoli dell’India e in tutti i pisciatoi della Galassia… Ricordo che allora, a Dharamsala, indossavo anch’io una bella tunica arancione, color albicocca suonata. Bei tempi, eh ? Ma quello che volevo chiederti, anche in qualità di collega purtualla, e se ritieni possibile chiedere al non manifesto di creare un paradiso per gatti, in modo da sistemare in qualche modo anche Sardina… Mah, non la rivedrò mai più… sigh!… ma adesso non vorrei apparire come uno che ha l’aria di voler suggerire a Dio come dovrebbero essere fatte le cose in Paradiso.
    Accontentiamoci di dire, se possibile, e anche a costo di apparire un buddhista criptocattolico, con aderenze advaite, cuore arancione e simpatie shivaite, insomma un ircocervo che si contraddice perché è vivo : “Expectamus resurrectionem mortuorum, et vitam futuri sÄ™culi. Amen”). Si tratterebbe di attendere senza aspettare né abbandonare nel nulla le vite che ci hanno preceduto.
    E, nel coltivare la cognizione del vuoto come fresca traccia del passaggio della vita e delle innumerevoli forme di vita, inchinarsi davanti al ricordo di ognuno, di ognuna.
    Insomma, che io non dimentichi gli uomini, le donne, i bambini, il gatto Sardina e il vivente-morente ! Lo chiamano il lavoro del lutto…
    Buon lavoro, ciao

  20. watts ha detto:

    Mi sono imbattuto in un passo di Norman Brown ( da “La vita contro la morte”) che mi ha ispirato alcune ulteriori e….. tardive considerazioni sul tema.
    Sotto il dominio della “rimozione” e’ difficile affermare l’ istinto di morte senza divenire un nemico della vita, perche’ l’ istinto di morte agisce in modo maligno.
    Data la fondamentale insoddisfazione della vita soggetta a rimozione, nello sfondo c’ e’ sempre il pericolo che esso si scinda in un semplice desiderio di morire.
    Schopenauer , che si e’ occupato a lungo del tema, anche in un’ ottica ispirata alle dottrine orientali ma inficiata dalla mancata adesione alla vita, sembra che affermi la morte ed il nirvana, ma dal momento che non puo’ affermare la vita , la sua affermazione della morte e’ spuria.
    Con la sua ostilita’ al “principium individuationis” egli e’ ostile sia alla morte sia alla vita .
    “Solo chi puo’ affermare la nascita puo’ affermare la morte, perchè esse sono una cosa sola” (cito letteralmente NB).
    Fino a che imperera’ la rimozione , fino a che la vita non sara’ soddisfacente, la morte potra’ essere affermata solo da coloro il cui istinto di vita è abbastanza forte per concepire la riconciliazione della vita e della morte come un futuro stato di perfezione a cui tende l’ istinto di vita.
    Nietzsche afferma : “Cio’ che si fece perfetto … vuole morire. Ma tutto quanto e’ immaturo vuole vivere”.

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