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guarigione-cop-mIl seguente testo è tratto da “Viaggio di guarigione, il potenziale curativo delle terapia psichedelica” di Claudio Naranjo, con prefazione di Stanislav Grof, pubblicato da Edizioni Spazio Interiore www.spaziointeriore.com , per gentile concessione.

Da sempre sappiamo di un nesso tra stati alterati di coscienza e cambiamenti di personalità. Gli sciamani di molte zone provocano stati di trance per guarire; i mistici spesso vivono esperienze “visionarie” durante la loro “conversione”; i pazienti nelle fasi più avanzate della psicoanalisi a volte hanno allucinazioni o mostrano altri sintomi psicotici temporanei.

L’uso deliberato di stati di alterazione della coscienza nel processo terapeutico ricade nell’ambito dell’ipnoterapia e dell’uso di sostanze psicotrope. Di recente poi è aumentato l’interesse per la nozione di “disintegrazione positiva” (Dabrowski) e per il valore dell’esperienza psicotica, quando ben integrata, essendo l’uso delle sostanze il metodo che ha più vasta applicabilità.

Le prime sostanze ampiamente usate a scopo terapeutico sono state i barbiturici e le anfetamine. Un barbiturico somministrato per via endovenosa, usato per la prima volta da Laignel-Lavastine (1924) per “rivelare l’inconscio”, in seguito è diventato la base di metodi come la narcoanalisi (proposta da J.S. Horsley nel 1936), la narcosintesi (Grinker) e altri.

Il primo uso di uno stimolante del sistema nervoso centrale in psicoterapia sembra risalire allo “shock da anfetamina” di J. Delay, seguito dalla “weckanalisi” (1) di Jantz. Prima di loro Myerson (1939) aveva descritto l’uso di benzedrina in endovena associata all’amobarbital, ma l’interesse per questo metodo crebbe soprattutto negli anni ’50, quando si iniziarono a usare più di frequente le anfetamine per via endovenosa.

Dopo stimolanti e sedativi, ci si interessò agli allucinogeni come facilitatori della psicoterapia. Gli esperimenti clinici di Federking (1947) con dosaggi piccoli o medi di mescalina furono seguiti da quelli di Abramson, che consigliava una dose minima di lsd-25 durante il trattamento psicoanalitico per raggiungere uno stato mentale alterato, e quello di Sandison, che portò un approccio junghiano al processo.

Negli anni successivi non solo entrarono in campo sostanze qualitativamente simili (psilocibina e altre triptamine), ma anche modi diversi di avvicinarsi allo stato mentale da esse indotto. In campo non medico, molti furono colpiti dal valore intrinsecamente spirituale dell’“esperienza psichedelica”, più che dall’uso terapeutico delle sostanze. Aldous Huxley, in particolare, ebbe una certa influenza nell’attirare l’attenzione sugli aspetti religiosi ed estetici delle sostanze psicoattive. Altri collegarono tali stati al tema del cambiamento di comportamento, anzi, li videro come la chiave per raggiungerlo, mettendo a punto delle procedure per massimizzare la possibilità di ottenere esperienze di picco. Questo, per esempio, è stato l’approccio terapeutico adottato da Hoffer e Osmond nel Saskatchewan nei confronti di pazienti alcolisti, e anche quello utilizzato dal gruppo di Harvard per progetti di riabilitazione in una prigione del Massachusetts.

Le sostanze di cui mi occupo in questo libro sono solo alcune tra quelle scoperte e riscoperte in anni recenti: l’impressione è che siamo solo all’inizio del processo che porta all’induzione di stati di coscienza non ordinari. D’altra parte, le sostanze che già conosciamo – stimolanti, sedativi, allucinogeni e quelle descritte nei capitoli successivi – ci dicono che non c’è un unico stato mentale che può aiutare l’esplorazione psicologica o l’interazione terapeutica: ogni sequenza di alterazioni indotte artificialmente nello schema della personalità di un individuo può contribuire a interrompere circoli viziosi nella psiche, facendo emergere dimensioni emotive o mentali sconosciute, o facilitando esperienze compensative in cui le funzioni meno sviluppate vengono temporaneamente stimolate, mentre quelle eccessivamente sviluppate vengono inibite.

Le quattro sostanze di cui tratta questo libro, sia dal punto di vista chimico che da quello dei loro effetti soggettivi, possono essere divise in due gruppi. Il gruppo delle fenilisopropylamine, che comprende l’mda e l’mmda, è caratterizzato soprattutto da effetti di potenziamento delle sensazioni: l’attenzione si acuisce e la fluidità nei collegamenti comunicativi aumenta. L’altro gruppo, quello degli indoli policiclici (ibogaina, armalina), potrebbe essere benissimo chiamato, per via dei suoi effetti, “oneirofrenico”, il termine che consiglia Turner per gli alcaloidi armalinici. Il loro effetto sulla maggior parte dei soggetti è quello di incrementare la visione di sequenze oniriche vivide, che possono essere contemplate da svegli chiudendo gli occhi, senza perdere il controllo sull’ambiente esterno e senza alterazioni nel pensiero.

Ciò che rende le sostanze di entrambi i gruppi utili per la psicoterapia è il fatto che facilitano l’accesso verso processi, sensazioni o pensieri che altrimenti resterebbero inconsci; una qualità che è giusto chiamare “psichedelica” nel senso usato da Osmond, ossia di “rivelazione della mente”. Queste sostanze non provocano i fenomeni percettivi, di spersonalizzazione o di cambiamento nel pensiero caratteristici degli allucinogeni, ma con essi hanno in comune l’intensificazione della consapevolezza, quindi potremmo chiamarli psichedelici non psicotomimetici.

Ci sono chiare differenze non solo tra i vari tipi di sostanze psicotrope, ma anche tra le caratteristiche individuali degli effetti di ognuna e tra i vari sintomi che possono indurre. In alcuni casi può essere difficile trovare differenze tra le diverse possibili reazioni alla stessa sostanza, mentre in altri si può scoprire che ciò che sembrerebbe essere molto diverso è solo una differente rappresentazione dello stesso processo. Proprio come la perdita dell’ego causata dall’lsd può essere vissuta sia come un’estasi nell’unità del Tutto che come un disperato attaccamento a un’esile identità, paura del caos e della pazzia, così anche l’aumento di realistica consapevolezza del presente causata dall’mmda può essere vissuta sia come serena soddisfazione che come ansia straziante, vergogna e senso di colpa per chi non è pronto ad affrontare quel momento.

Ogni sostanza induce più di due sintomi tipici che, a seconda anche dei tipi di personalità coinvolte, dovranno essere affrontati in maniera differente per ottenere risultati psicoterapeutici ottimali. Inoltre, l’atteggiamento del terapista nei riguardi della situazione dipenderà anche da come interpreterà i contrasti sopra elencati. In quei momenti si manifestano polarità piacere/dolore, come anche di integrazione/disgregazione della personalità, ed è di questo che voglio occuparmi nelle prossime pagine.

Esperienza di picco contro aumento della patologia

Apparentemente tutte le sostanze psicoattive, dai barbiturici all’ibogaina, possono indurre stati mentali piacevoli o spiacevoli, stati che sembrano più desiderabili di quelli ordinari e stati che non solo causano sofferenza, ma non permettono al soggetto di pensare in modo chiaro, di compiere azioni appropriate o di avere una percezione precisa della realtà. Huxley ha provato a descrivere la sensazione “paradiso e inferno” caratteristica della mescalina con parole che sono diventate di uso comune a chi conosce gli effetti di allucinogeni come l’lsd. Però ci sono tanti “paradisi e inferni” quante sono le sostanze. La reazione di un individuo in un continuum può in parte dipendere dalla sua costituzione. Sheldon ha infatti sottolineato che il sematotonico, attivo e potente, tende a reagire all’alcol diventando ancora più attivo e aggressivo; il viscerotonico, più socievole, diventerà ancora più emotivo ed estroverso; infine, l’introverso cerebrotonico sarà più riservato e razionale.

Eppure, qualunque siano i tratti della personalità che predispongono il soggetto a reagire in un certo modo a una data sostanza psicoattiva, è piuttosto chiaro che le sostanze di cui si parla in questo libro possono indurre in un individuo reazioni differenti da seduta a seduta, o anche in momenti diversi di una stessa seduta. Per di più, sembra certo che la sollecitazione di esperienze “paradisiache” o “infernali” dipenda molto dall’atteggiamento dell’individuo al momento, dall’ambiente, dal rapporto con il terapista e dalle ingerenze di quest’ultimo durante la sessione. E dato che tali variabili permettono in parte di scegliere un’esperienza rispetto a un’altra, è opportuno capire il loro valore nella psicoterapia.

Prima di tutto, qual è la natura di queste esperienze: sono “positive” o “negative”? E cos’è che le rende piacevoli o sgradevoli? La gamma delle esperienze di picco, tanto nella vita ordinaria quanto nelle condizioni indotte da sostanze psicoattive, comprende una varietà di stati che, direi, hanno in comune il fatto di essere momenti in cui si scoprono o si individuano valori intrinseci.

Usiamo la parola “valore” in molti modi diversi. Tuttavia, i modi in cui utilizziamo tale termine, più che designare diversi tipi di valore, denotano differenti processi psicologici che possono dar luogo a “giudizi di valore”. Definirei uno di questi processi “valore normativo”, ove “valore” indica l’accettare o il rifiutare qualcosa (una persona, un’azione, un oggetto, un’opera d’arte e così via) in base a una regola prestabilita. Tale regola può essere implicita o inconscia, e fa sì che le percezioni si conformino a essa. Il valore potrebbe anche consistere in uno standard di “buon gusto”, nell’idea di come dovrebbe essere una persona buona, una buona vita, e così via. In questo processo di assegnazione del valore, “valore” è un’idea-sensazione-azione basata sulla natura dell’esperienza passata o di un condizionamento.

Ma quando ci piace il sapore di una mela, quando godiamo nel respirare l’aria fresca o abbiamo un’esperienza reale di bellezza, amore o beatitudine mistica, il “valore” non è qualcosa che calcoliamo in base al fatto che l’esperienza in corso combaci o meno con uno standard, ma è la scoperta di qualcosa che sembra esistere nel momento e probabilmente prima ci sembrava sconosciuta. Inoltre, le norme solitamente hanno origine dalla scoperta di valori precedenti l’esistenza delle norme stesse: «E Dio vide che era cosa buona».

Le varie esperienze di valore intrinseco possono essere comprese se analizzate in un continuum o in una progressione che va dal più semplice livello di piacere dei sensi al livello più onnicomprensivo della beatitudine mistica. Per piacere si intende il regno del vero piacere, che differisce dalla maggioranza delle esperienze che solitamente consideriamo piacevoli. Queste ultime, infatti, non costituiscono propriamente la scoperta del valore intrinseco, ma il sollievo dalla tensione quando finisce una situazione di sconforto (sete, fame, ecc.). Il piacere sensoriale non è legato ai bisogni o all’istinto, ma, come il valore intrinseco, è vissuto come qualcosa di inerente all’“oggetto” stesso (il colore, il sapore, il suono, e così via), quindi apparentemente gratuito.

Potrebbe essere benissimo considerato come la forma più elementare dell’amore, poiché comporta un apprezzamento, un dire di sì alla realtà nel dettaglio, nella sua struttura, al suo interno, invece che nelle sue forme specifiche o in quello che la costituisce. È questa la qualità che nell’ambito del suono Stokowski ha chiamato – in contrapposizione con l’anima della musica – il corpo della musica, che ha una propria bellezza proprio come il corpo di una persona.

Ma l’anima dell’arte rientra nel regno della bellezza stessa, diversa dal piacere non solo per qualità ma per oggetto. Se quest’ultimo consiste nel godimento di impressioni sensoriali isolate, nella bellezza è il tutto che viene apprezzato: un oggetto, un simbolo o una persona sicuramente dotate di tali caratteristiche sensoriali, ma non definibili solo da queste. E quindi, proprio come della bella musica può essere suonata da uno strumento con una bassa qualità tonale, un dipinto scarso può essere fatto con i colori più belli che ci siano.

Quello che una qualità sensoriale è per il piacere, e quello che un’intera configurazione è per la bellezza, un essere lo è per l’amore. E se una cosa è più delle sue sole qualità sensoriali, un essere è più del suo solo essere qualcuno. Come la persona ha un corpo o si esprime attraverso il corpo, così lo spirito che crea un’opera d’arte parla attraverso essa, ma è diverso dalla sua forma. E più studiamo un’opera, più ci avviciniamo allo spirito dell’autore attraverso il suo stile. In verità, una delle esperienze più profonde nel percepire l’arte è quella dell’amore per l’essere che lì è rappresentato – che sia Bach, Dostoevskij, Van Gogh, o chiunque abbia creato dallo “spirito”, e non semplicemente decorato a caso lo spazio e il tempo. (Ma per arrivare davvero a quello spirito, dobbiamo essere uno, non una semplice sequenza di accadimenti in quel luogo che chiamiamo “Io”).

E quando amiamo un oggetto, lo consideriamo anche un essere, al di là del suo apparire fisico, che può essere più o meno bello. Forse fu proprio l’amore per tutte le cose che fece dire a Gauguin: «Un oggetto non è sempre piacevole da vedere, ma è sempre bello». Non sto dicendo che negli oggetti c’è una sorta di anima, voglio solo sottolineare la qualità della nostra eventuale esperienza. Da un lato l’oggetto è un semplice aggregato di qualità fisiche, dall’altro lo personifichiamo e ci relazioniamo con esso in quanto essere, in quanto individuo, a volte in modo implicito, come quando laviamo un piatto con amorevolezza, o più o meno esplicitamente quando non vogliamo buttare un vecchio maglione.

Proprio come un essere è l’oggetto dell’amore, l’essere in se stesso è l’oggetto dei sentimenti evocati dalle parole santità e sacralità, ovvero la meraviglia dell’esistenza a prescindere dalla forma in cui si presenta, il miracolo e il dono di quell’affermarsi che ha creato questo mondo: Beingness, l’Essere, che è come Huxley traduce l’Istigkeit di Eckhart.
E oltre a non avere la naturale capacità di trovare la bellezza in ogni forma, o di amare ogni essere, siamo anche limitati dal fatto che riconosciamo L’Essere solo attraverso certi esseri, determinate cose, suoni o persone in grado di stimolare la nostra intrinseca religiosità, più o meno collegata all’idea di Dio o ai concetti convenzionali della religione.

Se le esperienze di picco sono quelle in cui troviamo tali valori intrinseci ‒ valori che vanno dall’affermazione più semplice degli elementi percettivi attraverso la bellezza e l’amore, all’affermazione dell’esperienza in sé per sé come terreno comune di tutte le cose ‒ allora qual è l’estremo opposto del continuum paradiso-inferno?

In modo superficiale o descrittivo, possiamo dire che quell’estremo coincide con un aumento delle sindromi ben note alla tradizione psichiatrica: rivelazioni psicosomatiche o conversioni, reazioni all’ansia o alla depressione, amplificazione dei disturbi della personalità, deliri temporanei o catatonia, e così via.

Andando più in profondità, vorrei dire che questi stati sono solo il risultato finale di una negazione di valori intrinseci. Dare valore, apprezzare le cose in ogni forma e a tutti i livelli, è una forza verso la vita che non solo dà forma al mondo, ma costituisce l’unico vero modo di vivere. Ed essendoci questo dire di sì alla vita, esiste anche un dire di no, una forza respingente che nasconde la gioia intrinseca dell’esistenza, che ci rende incapaci di amare e “infedeli” ai sentimenti che ci porterebbero a venerare l’esistenza in quanto tale.

La sostanza rende semplicemente più manifesta la psiche di una persona. In base al grado di accettazione dell’individuo, l’esperienza sarà un valore oppure una situazione di conflitto tra un atteggiamento di apertura e uno di negazione messo in atto dal subconscio. Un conflitto del genere può naturalmente portare alla repressione, a espressioni simboliche sostitutive attuate con il corpo o la mente, a formazioni reattive, all’ansia del lasciarsi andare.

Un’esperienza di questo tipo non manca di valore, però, perché comporta uno scontro insolito e spesso drammatico tra le forze della personalità; quindi il conflitto può venire alla luce, essere compreso ed eventualmente risolto. Portare alla luce il conflitto – che in fondo è un conflitto dell’essere o del non essere, dell’essere a favore o contro se stessi – vuol dire portare alla luce il “mostro” della mente in cui è nata la forza negativa. Risolvere il conflitto, ovvero raggiungere l’unità, può essere collegato a quello che nel mito classico è l’uccisione del drago e l’acquisizione del suo potere, oppure, in alternativa, al domare una bestia, e quindi usare le sue energie distruttive a servizio della vita.

Il processo della “discesa” nel patologico, nel caotico e nel distruttivo come mezzo per raggiungere l’integrazione personale non è una scoperta della psicoterapia contemporanea. Possiamo trovarlo esplicitamente nella Divina Commedia di Dante. Il poema inizia con l’autore che, a metà della sua vita, si trova perso in una “selva oscura” dove è entrato mentre dormiva. Vede in lontananza le alte montagne e vuole scalarle per raggiungere il massimo obiettivo. Ma non è possibile. Ci sono tre bestie mostruose (diverse trasformazioni della stessa) che, una dopo l’altra, gli ostruiscono il passaggio. Appare quindi la sua guida, che gli dice di come sia impossibile un percorso diretto: prima deve passare per gli inferi.

Poi Dante racconta di aver seguito la sua guida e di aver contemplato, una dopo l’altra, tutte le diverse aberrazioni dell’uomo fino a che, molto dopo, avendo attraversato inferno e purgatorio, gli viene detto che questi costituiscono le malattie dell’amore: «L’amor che move il sole e le altre stelle». Il processo descritto da Dante nella Commedia ha molto in comune con le esperienze “infernali” causate dalle sostanze. È la comprensione tradizionale della via contemplativa nello sviluppo spirituale. Vediamo e riconosciamo tutte le passioni come diverse dall’“Io”, il centro dell’esperienza di ognuno. Dante affronta le varie scene dell’inferno con dolore e fastidio, a volte è addirittura incapace di restare conscio dopo lo shock («e cade come corpo morto cade»), però mantiene una certa distanza e si lascia tutto alle spalle.

La consapevolezza, o la coscienza, è infatti l’unico elemento che la maggior parte degli psicoterapisti al giorno d’oggi riconosce come motore essenziale della trasformazione. Avere consapevolezza dei nostri processi significa portarli sotto il nostro controllo, renderli “nostri”. E, paradossalmente, nell’atto di essere consapevoli non siamo solo quei processi, ma un’entità più universale che può continuare a esistere con o senza di “essi”. «Lo spirito è libertà» dice Hegel. È questa la differenza tra l’inferno e il paradiso in Dante, proprio come la differenza tra l’inizio e la fine di una psicoterapia riuscita. Il paradiso e l’inferno non rappresentano forze diverse: come nell’inferno dantesco c’è la lussuria, così nel paradiso c’è un cielo dove dimorano gli spiriti innamorati; al girone degli ingordi corrisponde il cielo dei golosi di manna celestiale, e così via.

L’unica differenza è che se nell’inferno una cosa viene vista come “passione” (ovvero un’emozione “sofferta” passivamente), nel paradiso questa è una “virtù”, dall’indoeuropeo vir, “forza”, “energia”, che in latino è anche “uomo”.
L’effetto trasformante della coscienza nei processi della vita è una trasmutazione grazie alla quale questi processi si avvicinano sempre di più alla loro vera natura. È come se nello stato di coscienza “infernale” le nostre energie, non sapendo cosa vogliano davvero, sbagliassero obiettivo, allontanandosi dai loro percorsi naturali. Quando ogni parte dell’uomo si ricorda cosa vuole davvero, la malattia diventa salute, e quella che prima era una parodia della vita diventa qualcosa che fino a quel momento era stato solo un’ombra.

Il viaggio nell’inferno chimico in fondo non è diverso dal processo di conquista dell’autoconsapevolezza, né dai percorsi delle moderne terapie introspettive. Sono tre casi diversi dal punto di vista tecnico, ma soprattutto differiscono per l’intensità del processo; grazie alle sostanze, mesi di terapia possono essere concentrati o condensati in poche ore. Il processo è comunque lo stesso di ogni “percorso di crescita”: un’azione di riconoscimento di ciò che è stato evitato o allontanato dai confini della consapevolezza.

Siccome ciò che evitiamo di guardare è quello che ci spaventa, questa esperienza deve essere un atto di coraggio. Molto di quello che non facciamo entrare nel nostro campo di coscienza è doloroso, fastidioso o umiliante; pertanto acquisirne la consapevolezza può comportare sensazioni altrettanto spiacevoli. Il dolore o il tormento indotto dalle sostanze può essere considerato come dolore concentrato, o paura pregressa di scoprire se stessi, quindi potrebbe essere il prezzo inevitabile da pagare per vedere la propria realtà.

L’esperienza ci dice che la reazione dolorosa è temporanea. La fine della via purgativa è l’accettazione di sé, ma è improbabile che a una fine del genere si possa arrivare senza iniziare da un principio, ovvero senza esporre le ferite che devono essere curate: conflitti da risolvere, odio di sé da riesaminare, vergogna, senso di colpa, e così via.

Il fatto che si guarisca dimostra che i “problemi” e l’origine della sofferenza sono stati in un certo senso illusori. Se l’intensificazione della consapevolezza, provocata chimicamente, amplia la patologia, è solo perché la “normalità” è in parte mantenuta da una condizione di anestesia psicologica, e l’adattarsi a tale condizione solitamente appartiene alla natura stessa del rifiuto e della negazione, non al superamento del problema. Un passo avanti nella consapevolezza, però, può mostrare che la patologia, ormai messa a nudo, poteva prosperare solo nel buio, e i conflitti che la causano derivavano da confusione e incoscienza.

Il paradosso di fondo della psicoterapia è che la sofferenza che evitiamo è semplicemente perpetuata dal fatto stesso che la evitiamo. Solo avvicinandoci alla paura e affrontando i mostri che sono all’origine dell’agonia, possiamo scoprire che non ci sono mostri di cui avere paura. Si tratta di un fenomeno osservabile, nella sua espressione più drammatica, quando i pazienti pensano di stare per morire durante la sessione, ma, nel momento in cui si arrendono alla morte, si svegliano in un’estasi di pura vitalità; oppure quando pensano di essere sul punto di impazzire, ma, finalmente capaci di abbandonare il controllo, capiscono che era solo una loro aspettativa catastrofica, che il vaso di Pandora in realtà era vuoto e il desiderio di controllo aggirato.

Si può dire che questo processo consista nel distinguere la realtà dall’illusione, che rappresenti una “disintegrazione positiva” (Dabrowski), oppure, dal punto di vista comportamentale, un rinnovamento e una “desensibilizzazione” attraverso l’esposizione, in un ambiente protetto, a ciò che era stato evitato. Per motivi pratici, però, sembra chiaro che la cosa migliore che può fare il terapista sia accompagnare il paziente nel suo viaggio all’inferno, come Virgilio fece con Dante, ricordandogli qual è il suo obiettivo, dandogli il coraggio di andare avanti e guardare, addirittura spingendolo quando invece vorrebbe scappare per la paura. Credo che la comprensione che l’inferno non è l’inferno debba provenire da un’autorealizzazione, e non da una rassicurazione esterna o dal lavaggio del cervello, quindi mi ritrovo per l’ennesima volta a ripetere ai miei pazienti: «Resti lì». Restare lì è il modo di attraversare l’inferno, ovunque esso sia.

Eppure, oltre l’inferno c’è il purgatorio e i simboli danteschi possono essere rilevanti nel processo terapeutico, in questo come in altri momenti. L’inferno è uno stato di sofferenza senza speranze o possibilità di aiuti esterni; il purgatorio è uno stato di sofferenza scelta in vista di un obiettivo. Nel primo, l’uomo è una vittima; nel secondo, un penitente. Nell’inferno, l’uomo si limita a contemplare la sua realtà, il suo essere, per così dire, sommerso dalle cose negative che ha fatto. Il purgatorio inizia quando l’apertura degli occhi sulla realtà non spaventa più, ma è anzi una spinta a fare. Questo è l’inizio della vita activa in opposizione alla vita contemplativa, e i dolori del purgatorio sono in essenza il contrasto tra l’espressione dell’essere e gli ostacoli interni alla personalità.

È uno scontro che con ciò che può essere affrontato solamente se disposti a fronteggiarlo. Nell’immaginario di Dante è come scalare una montagna. In termini psicologici, è il coraggio di essere, è l’esprimere la propria natura essenziale nonostante le avversità.

Nel contesto psicoterapeutico, e in particolare in quello delle sostanze psicoattive, l’azione si compie nella sfera sociale estremamente limitata della relazione tra paziente e terapeuta, ma può anche raggiungere una dimensione astratta, attraverso l’arte o attraverso il regno potenzialmente illimitato dell’immaginazione. L’importanza della visualizzazione immaginativa, o della rappresentazione drammatica, sottolinea il ruolo centrale della terapia della Gestalt e il sogno guidato nei casi presentati in questo libro.

Può sembrare ovvio che il processo di cambiamento interno debba iniziare con la contemplazione, inevitabilmente dolorosa, di quegli aspetti che, nella realtà psicologica distorta presa in esame, devono essere trasformati. Eppure nella psicoterapia si parla molto anche di un approccio complementare a quello appena esposto: promuovere la crescita e l’espressione degli aspetti sani della personalità, anziché la distruzione dei vecchi schemi, lo sviluppo di una presa più costante sulla realtà e non l’analisi del mondo fantasma di immagini e di interpretazioni distorte dell’esistenza. Quando si utilizzano le sostanze a scopo terapeutico questo è il tema delle esperienze di picco.

Tra gli psicoterapeuti che utilizzano l’lsd e affini, sembra ci sia stata la tendenza di cercare solamente il raggiungimento delle esperienze di picco e considerare i bad trip come degli incidenti, ovvero situazioni che non vengono sfruttate per risolvere i problemi. D’altra parte, esistono anche pazienti in grado di affrontare bene le manifestazioni patologiche e i conflitti, ma che sono disorientati da stati di beatitudine che non rientrano nella loro prospettiva concettuale.

Sia nei casi di agonia che di estasi, nelle esperienze con le sostanze c’è il potenziale della guarigione psicologica, ed è importante per noi conoscere la direzione e le prospettive di questi due stati per gestirle nel migliore dei modi quando si presentano.

Per quanto possa sembrare un dettaglio tecnico, penso che il collegamento tra questi due tipi di esperienza faccia parte del rapporto più profondo tra la moderna psicoterapia e le discipline e i percorsi spirituali descritti da autori e insegnanti della mistica.

Quando si tratta di comprendere le esperienze indotte dalle sostanze, gli atteggiamenti o le credenze sul rapporto tra psicoterapia e percorso spirituale sono tanto vari quanto lo è l’intera esperienza umana. La tendenza più comune però è quella di vederle come due cose separate, dando la priorità solo all’una o all’altra. Quindi c’è chi si concentra di più sul lato “trascendentale” e tratta la psicoterapia come una cosa di poco conto, e chi vede tutto ciò che è “mistico” con sospetto, oppure lo vede come interessante dal punto di vista culturale ma irrilevante per l’obiettivo finale, ovvero la guarigione mentale.

Gli psicoterapeuti che riconoscono l’importanza delle discipline spirituali nel loro campo (come Fromm, Benoit o Nicoll) o i pensatori religiosi interessati alla psicoterapia (come Watts) sono una minoranza, e il loro numero diminuisce quando cerchiamo tra loro chi possiede nozioni precise sul collegamento tra queste due sfere, e non semplicemente un interesse per entrambe.

Dal mio punto di vista, la “psicoterapia” (intesa nel modo giusto) e il “misticismo” o “esoterismo” (inteso nel modo giusto) sono solo dei passaggi diversi di un unico viaggio dell’anima, diversi livelli di un processo continuo di espansione, integrazione e autorealizzazione della coscienza. Le questioni centrali di entrambi i campi sono le stesse, anche se i fenomeni che si incontrano, gli stati psicologici con cui si ha a che fare o le tecniche che si usano possono essere differenti. Alcune di tali questioni, da me descritte in altra sede, riguardano, oltre allo sviluppo della consapevolezza, il contatto con la realtà, la risoluzione dei conflitti in una visione più omnicomprensiva, lo sviluppo della libertà, la capacità di arrendersi alla vita, l’accettazione dell’esperienza e, più nel particolare, un cambiamento nell’identità che abbandona un io creato concettualmente e si identifica con il vero sé, con l’essenza.

La relazione tra la ricerca del benessere e la ricerca dell’illuminazione può essere vista come quella tra i misteri minori e maggiori dell’antichità. Se i minori puntano alla restaurazione di un “uomo vero”, un “uomo originario”, l’obiettivo dei maggiori è la trascendenza della condizione umana, l’acquisizione di un certo livello di libertà rispetto ai bisogni o alle leggi che determinano la vita umana ordinaria tramite il conseguimento di uno stato dell’essere completamente differente. La distanza tra la consapevolezza strettamente umana, anche all’apice della sua manifestazione, e questa “altra sponda” è alla radice di simboli come il ponte, il mare, la scala (non solo per arrivare in cima a una montagna) e, in particolare, dei simboli della morte e della rinascita che si ritrovano in tutte le tradizioni mistiche e religiose.

L’uomo originario, l’uomo naturale, è l’obiettivo della psicoterapia. Si tratta di un uomo liberato dal “peccato originale”, un uomo che non lotta contro se stesso, ma soddisfa il suo potenziale affermando il proprio io e l’esistenza. Questo è l’uomo che Dante, in una monumentale sintesi tra le culture antiche e la cristianità, colloca in cima al purgatorio, nel paradiso terrestre. Paradiso, sì, ma non ancora nei cieli, dato che quello va oltre il mondo sublunare di Aristotele; i suoi “cerchi” sono quelli dei pianeti, del sole e delle stelle fisse.

Proprio come nel viaggio di Dante, solamente dopo aver raggiunto il compimento della condizione umana ordinaria (ottenuta dopo aver attraversato inferno e purgatorio) l’uomo può innalzarsi al di sopra della Terra; allo stesso modo, la maggior parte delle tradizioni mistiche riconosce la necessità di una via purgativa prima di una via unitiva, il bisogno per l’uomo di realizzare la propria vera natura in quanto essere umano, prima di poter realizzare la propria natura divina, il bisogno di stabilire un ordine e un’armonia nella vita, prima che l’anima si apra al “soprannaturale”, il quale altro non è che il naturale nascosto alla comprensione e alla consapevolezza ordinarie.

Tuttavia questi passaggi non sono ben definiti nella realtà pratica, dato che le esperienze estatiche e visionarie possono accadere prima che la personalità umana sia pronta a viverle, o addirittura a comprenderne il contenuto. In questi stati di esaltazione capiamo che tutte le scuole spirituali hanno un approccio piuttosto ambivalente.

Da una parte, il guru mette in guardia il discepolo contro il fascino dei “poteri” speciali, poiché essi potrebbero distrarlo dal suo vero obiettivo; il mistico cristiano mette in guardia il monaco contro il fascino delle “visioni” e dell’estasi emotiva; infine il maestro zen considera le esperienze allucinatorie durante la meditazione come makyo (“che vengono dal demone”); in generale, si parla sempre di pericoli associati al contatto con l’occulto da parte di chi non è “preparato”. La preparazione in questo contesto non significa conoscenza, ma piuttosto sviluppo della propria persona, senza il quale la strada del misticismo diventa quella della magia: un percorso del soprannaturale al servizio dell’ego e non dell’ordine trascendente a cui l’ego si subordina, la comprensione di un qualcosa di totale dove l’individuo può trovare il suo vero scopo.

D’altra parte, queste esperienze di paradiso senza purgatorio, di samadhi prima dell’illuminazione, di grazia prima dell’unione mistica, di stati di coscienza straordinari prima della piena maturità spirituale, costituiscono non solo l’obiettivo finale di pratiche specifiche, ma possono anche considerarsi veri e propri semi di trasformazione.

Penso che lo stesso duplice punto di vista possa essere usato per affrontare meglio le esperienze di picco indotte da varie sostanze psicoattive. Più spesso che non le discipline o i rituali meditativi, tali esperienze possono far arrivare al paradiso senza passare dal purgatorio, alla comprensione delle verità universali che sono il nucleo dei misteri religiosi senza per forza dover passare attraverso la comprensione, o la trasformazione, delle imperfezioni che costituiscono la personalità dell’individuo. L’individuo può usare questo tipo di esperienza per rafforzare l’ego o per cambiare la personalità, per autogiustificarsi e ristagnare, oppure come una luce che gli mostri la via.

Di tutto ciò che possiamo dire del valore terapeutico delle esperienze di picco, credo che il punto di vista più adatto (descritto in maggior dettaglio nel Capitolo 3) sia quello di considerare il cambiamento della personalità e l’esperienza di picco come due cose ben distinte, quale che sia la relazione tra loro. Ognuna di esse può portare all’altra, ma è importante tenere a mente che l’esperienza mistica si limita a facilitare la guarigione psicologica (ad esempio offrendo all’individuo una prospettiva più ampia sui suoi conflitti), mentre la guarigione psicologica si limita ad aumentare la recettività dell’individuo offrendogli la possibilità di un’esperienza più profonda della realtà, il che fondamentalmente è un’esperienza di picco.

Il fatto che l’esperienza mistica raggiunta attraverso l’uso di una sostanza sembri avere meno peso sulla vita dell’individuo rispetto alle esperienze spontanee dello stesso tipo (o esperienze raggiunte attraverso una disciplina spirituale sistematica) ha fatto nascere il dubbio che le due non siano della stessa natura.

Certamente ci si aspetta che un’esperienza religiosa spontanea sia più permanente di un episodio indotto da un agente esterno per il semplice fatto che la prima indica una personalità più compatibile con quell’esperienza o con le sue implicazioni. Maggiore è la necessità di un’influenza esterna – chimica o di altro tipo – per raggiungere l’esperienza, maggiore è la probabilità che esistano ostacoli psicologici a tale esperienza, così come un divario tra valori, motivazioni e punti di vista ordinari e quelli che caratterizzano stati non ordinari. Eppure, se immaginiamo l’esperienza di picco indotta artificialmente come una momentanea liberazione dalla prigionia della personalità ordinaria e dei suoi conflitti interni, possiamo dire che il suo valore è quello di donare al prigioniero un assaggio di libertà, la prospettiva di una vita migliore rispetto a quella nella sua cella solitaria.

Un’esperienza del genere contribuirà alla liberazione permanente dell’individuo rinforzando le sue motivazioni, distruggendo l’idealizzazione che ha creato della sua vita in prigionia, dandogli una direzione utile e delle informazioni esterne su come fare per ottenere quella libertà. Ciò dipende anche da quello che farà il prigioniero mentre la porta della sua cella non è chiusa a chiave. Una possibilità è che non apra nemmeno quella porta, se è troppo assonnato o se ha troppa paura della vita fuori da quei muri dove ormai è abituato a vivere.

Oppure potrebbe uscire per prendere del cibo dalla stanza accanto, o semplicemente fare due passi e godersi il panorama. Può anche cercare di capire come usare il tempo che ha per ottenere una libertà permanente. Può trovare dell’aiuto, degli strumenti da portarsi dentro per rimuovere le sbarre quando sarà di nuovo chiuso nella cella, oppure può usare il tempo per creare un duplicato della chiave per poi aprire la porta quando vuole.
In altre parole, può capire che l’estasi artificiale è uno stato reso possibile dalla rimozione transitoria di ciò che ostacola il flusso della vita psichica più profonda di una persona e la sua esperienza della realtà. Tale rimozione di ostacoli può essere paragonata all’anestesia del controllo corticale causata dall’alcol, dall’no2, dalla mancanza di ossigeno, ecc., che porta alla perdita di inibizioni e alla libera espressione dell’emotività. Eppure, se questo modello neurofisiologico è corretto, la sede di azione delle sostanze discusse in questo libro deve necessariamente essere diversa da quella degli antidepressivi, perché esse procurano un tipo diverso di disinibizione.

Questa esperienza di libertà dalle abituali ostruzioni nella percezione e nell’azione è comunque solo un’anteprima di un eventuale superamento di quei blocchi, o di una ristrutturazione di schemi disfunzionali interni alla personalità. E se entrambi potrebbero, dal punto di vista dell’esperienza, sembrare uguali, in realtà in un caso abbiamo una libertà condizionata, mentre nell’altro una libertà nella sua totalità, ovvero la libertà nonostante le difficoltà.

Per tornare all’analogia con la prigione, nel primo caso è come se la guardia fosse stata solo addormentata, ma non sopraffatta o uccisa, poiché l’ego viene distrutto dall’illuminazione mistica e “l’uomo vecchio” o “l’uomo esterno” muore quando, a un certo punto del percorso spirituale riuscito, nasce “l’uomo nuovo” o “l’uomo interiore”. Molto di quello che è stato appena detto si può applicare anche alle esperienze prodotte da certe discipline spirituali, da certi ambienti e da “contaminazioni” personali. Il ritirarsi dal mondo, ad esempio (che sia per una vita più semplice o per un percorso ascetico come quello del monaco e del sannyasin indiano, distaccati da ogni cosa), è la via dell’evitare quegli ostacoli, distrazioni e conflitti che allontanano dalla possibilità di avere un’esperienza di picco. Sicuramente è molto più faticoso mantenere uno stato di equilibrio e di autenticità in un ambiente urbano con lo stress della vita di famiglia, rispetto a una grotta sull’Himalaya. L

’isolamento può comunque essere un aiuto preziosissimo per chi ha bisogno di trovare se stesso prima di sapere ciò che vuole dagli altri e cosa vuole fare con la propria vita. La stessa cosa succede in molte forme di meditazione quando, per raggiungere uno stato di benessere, si cerca di liberare corpo e mente dall’ abituale agitazione interiore. Infatti anche qui le esperienze di picco sono rese possibili dalla soppressione degli stimoli che altrimenti le soffocherebbero. Eppure, esperienze di meditazione transitorie, raggiunte in solitudine e silenzio guardando un muro bianco con la mente libera da pensieri, non sono semplici evasioni dalle complicazioni della vita, ma una fonte di forza che l’individuo potrà utilizzare per tornare su certi problemi e affrontarli meglio.

Note:
(1) Nella “weckanalisi” venivano utilizzati composti anfetaminici come aiuto per l’indagine psichiatrica.
(2) Somatotipi diversi secondo la classificazione biotipologica di Sheldon.
Il testo è tratto da “VIAGGIO DI GUARIGIONE, il potenziale curativo delle terapia psichedelica” di Claudio Naranjo, con prefazione di Stanislav Grof, pubblicato da Edizioni Spazio Interiore www.spaziointeriore.com, per gentile concessione.

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