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Ho il piacere di presentare l’ultima opera di Augusto Shantena Sabbadini sul Tao Te Ching.  Come l’autore afferma:

Il mio libro favorito. Non ne conosco un altro che vada altrettanto vicino a esprimere ciò che è al di là delle parole. Il libricino (consiste in tutto di soli cinquemila caratteri) comincia con l’affermazione: “il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”. E poi continua a parlare del Tao, non nella modalità della definizione, bensì in quella dell’allusione, della suggestione, della provocazione. In questo sta il suo fascino, per questo ha incantato generazioni di lettori in Oriente e in Occidente. Non parla alla mente logica: allude a un’esperienza. Come i koan Zen, porta il lettore sull’orlo di un abisso, dove la mente si ferma.

Di seguito un estratto dall’introduzione.

Tao Te Ching
Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo
Traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini

URRA, 2009
www.urraonline.com

Dao, 道

Cos’è dunque questo Dao?

dao : via, strada, cammino; tracciare un cammino, condurre, connettere; corso d’acqua o condotta; via da seguire, principio guida, norma, dottrina; seguire una dottrina, essere adepto di una disciplina; il Dao, la Via; modo di procedere, arte, metodo; opera magica o tecnica; potere dell’indovino, del mago o del re; reggere, governare; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare; sapere, essere consapevole. (nota 1)

La maggior parte dei significati della parola dao preesistono al daoismo: il termine era già di uso corrente ai tempi in cui il daoismo ebbe origine. Ma i daoisti se ne servirono in una maniera particolare, in un senso nuovo e specifico che, seguendo la convenzione, indico con l’iniziale maiuscola: il Dao, la Via. Per comprendere l’origine di questo nuovo uso della parola dobbiamo in primo luogo farci un’idea di come il termine dao fosse usato nel dibattito filosofico all’epoca.

I temi principali di questo dibattito erano di natura epistemologica ed etica: riguardavano la distinzione fra il vero e il falso, fra il giusto e lo sbagliato, i principi che devono guidare il comportamento dell’individuo e i fondamenti delle norme che devono reggere la società. Il dibattito dunque riguardava ‘i dao‘, i principi guida, le norme, le dottrine, così come la validità dei discorsi, delle argomentazioni in merito. In esso si affrontavano diverse scuole di pensiero che possono essere divise in due grandi campi, tradizionalisti e innovatori.

I confuciani, rappresentanti per eccellenza del campo conservatore, “erano sacerdoti del rituale culturale e sociale. Essi sottolineavano l’approvazione e l’autenticazione convenzionale.” (Nota 1) Per loro la suprema autorità etica era la via tracciata dagli antichi re-saggi, tramandata nelle norme e nei rituali sociali. Una delle loro preoccupazioni era la ‘rettificazione dei nomi’, l’uso appropriato del linguaggio: linguaggio corretto, comportamento corretto e ordinamento corretto della famiglia e della società erano intimamente connessi. In tutti e tre i casi occorreva ritornare a una tradizione più antica e più pura per porre rimedio al disordine e alla corruzione del presente.

I moisti, i seguaci di Mozi (circa 480 a.C.), sono invece un esempio paradigmatico del campo innovatore. Essi “erano carpentieri, ingegneri, strateghi militari. I criteri di validazione per loro erano più legati al mondo e meno alla società…” (nota 1) Ai loro occhi le norme tradizionali, in quanto creazione umana, non erano dotate di un valore intrinseco e universale. L’ideale moista era un’etica universale in quanto fondata nella natura, non nella cultura. Questo fondamento veniva individuato nella distinzione naturale fra il beneficio e il danno: compito delle norme etiche era dunque assicurare la massima utilità sociale, massimizzando il beneficio e minimizzando il danno.

In questo dibattito i daoisti intervennero in maniera radicale, mettendo in discussione i presupposti sia degli uni che degli altri e spostando il discorso a un metalivello. Moisti e confuciani discutevano su quale fosse il giusto dao a livello individuale e sociale. I daoisti chiesero invece: esiste un giusto dao? Esiste una norma, una dottrina, un discorso che sia costante, universale? Si può parlare di un giusto e di uno sbagliato in senso assoluto? Oppure il giusto e lo sbagliato, il vero e il falso sono relativi e dipendenti dal contesto? Moisti e confuciani discutevano su quali fossero i fondamenti dell’etica e su quali norme fossero più appropriate per lo sviluppo dell’individuo e della società. I daoisti misero in discussione l’idea stessa di etica. Ai loro occhi l’imposizione di un’etica, qualsiasi etica, era un allontanarsi dalla spontaneità, dalla natura originaria e autentica dell’essere umano.

Fondamentalmente dunque i daoisti spostarono il discorso da ‘cosa è vero e giusto’ a ‘cosa si può dire in generale del vero e del giusto’. Spostarono cioè il discorso a un metalivello, dove inevitabilmente si trovarono ad affrontare il problema dei limiti del linguaggio, la frattura fra rappresentazione e realtà e, in nuce, tutti i dilemmi del pensiero postmoderno contemporaneo.

La risposta daoista alla domanda ‘cosa si può dire in generale del vero e del giusto’ è fondamentalmente scettica e relativista. I daoisti ironizzano sulla presunzione di coloro che pensano di poter catturare la realtà in un sistema intellettuale. Sono altresì convinti che cercare di imporre una norma di comportamento agli individui e alla società, sforzarsi di migliorare le cose, è fare il primo passo nella direzione sbagliata ed è la sorgente ultima del disordine. Meglio è astenersi dall’interferire nel corso naturale delle cose, adottare una forma di azione fluida e minimale che può essere descritta come ‘non azione’ (un’idea di cui avremo modo di occuparci spesso nel commento al testo) e ritornare a una condizione di semplicità descritta metaforicamente dall’immagine del ‘blocco di legno grezzo’.

Dao ke dao…

Riesaminiamo dunque il primo verso del Laozi alla luce del contesto tratteggiato sopra. Il verso consiste di sei caratteri: dao (4) ke (3) dao (4) fei (1) chang (2) dao (4).

dao via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via

ke potere, permettere, essere in grado, consentire, approvare, appropriato, possibile, veramente

dao via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via

fei non essere, non, diverso, opposto, contraddizione

chang costante, durevole, sempre, frequente, assoluto, permanente

dao via, strada, cammino; principio guida, norma, dottrina; modo di procedere, arte, metodo; discorso, dire, insegnare, parlare, spiegare, esprimere, comunicare, il Dao, la Via

Alcune letture possibili di questo verso sono:

‘ogni via che può essere detta/insegnata/comunicata non è una via costante/eterna’
‘ogni norma che può essere detta/insegnata/comunicata non è una norma costante/eterna’
‘ogni dottrina che può essere detta/insegnata/comunicata non è una dottrina costante/eterna’.
‘ogni dire che può essere detto non è un dire costante/eterno’.

Tutte queste letture corrispondono alla posizione epistemologica dei daoisti. Esse dicono sostanzialmente: ogni discorso è contingente, ogni rappresentazione della realtà è solo condizionalmente valida, ogni norma prescrittiva è relativa, non esiste un fondamento ultimo per l’epistemologia e per l’etica.

Questa è essenzialmente anche la prospettiva che sta alla base del pensiero postmoderno. Una formulazione classica di essa è la famosa metafora di Korzybski: “la mappa non è il territorio” (nota 1). Un’affermazione apparentemente ovvia, che tuttavia intesa in senso ampio colpisce alla radice ogni tentativo di catturare la realtà in un sistema di pensiero. Quel che Korzybski dice è che ogni descrizione della realtà mediante un linguaggio è una mappa. L’universo del discorso è l’universo delle mappe: la realtà, il ‘territorio’, resta eternamente al di là di tale universo.

Un’altra, splendidamente ironica, formulazione dello stesso assioma (una formulazione che indubbiamente sarebbe piaciuta a Laozi) è la pipa di Magritte. Nel 1929 il surrealista belga René Magritte dipinse questo quadro, intitolato L’inganno delle immagini:


L’inganno di cui Magritte parla non si limita alle immagini, ma si estende a ogni forma di rappresentazione: un persistente errore umano è la reificazione dei nostri costrutti mentali, scambiare il concetto per la cosa (scambiare la mappa per il territorio, nel linguaggio di Korzybski).

Ma, se daoismo e pensiero postmoderno condividono la stessa epistemologia relativista come punto di partenza, essi divergono nei loro sviluppi. La realtà è indicibile, è eternamente al di là dell’universo del discorso: questo è il punto di partenza comune. Ma l’interesse del pensiero postmoderno si concentra sull’universo del discorso come creatore di realtà intersoggettivamente condivise, di mondi sociali. L’interesse dei daoisti invece è tutto rivolto verso la realtà indicibile. Il loro interesse per la sfera del discorso è solo critico e ironico. La dimensione esistenziale è la sola che conta per loro.

Essi introducono perciò un nuovo uso della parola dao, l’uso che ho indicato con l’iniziale maiuscola. Il Dao, la Via è ciò che sta oltre il dicibile, ciò che non ha nome e di cui pertanto si può solo parlare per paradossi e allusioni, ciò che è più antico di ‘cielo e terra’, il ‘vuoto’ che sta prima della dualità di soggetto e oggetto, coscienza e mondo. Il Laozi può essere letto come un invito a un viaggio esperienziale in questa dimensione del ‘vuoto’ – il ‘vuoto’ che è ‘la madre dei diecimila esseri’, il ‘vuoto’ da cui ogni cosa scaturisce e a cui ogni cosa ritorna.

Tenendo presente quest’altro uso della parola dao, le letture possibili del primo verso del Laozi si allargano a comprendere le seguenti:

‘ogni dao di cui si può parlare non è l’eterno/costante Dao’
‘ogni via che può essere insegnata non è l’eterna/costante Via’
‘il Dao, non appena se ne parla, non è già più l’eterno/costante Dao’
o anche, concisamente (con Addiss e Lombardo):
‘Dao detto Dao non è Dao’.

È importante a questo punto comprendere che questi nuovi significati non escludono quelli indicati in precedenza. Il testo cinese li comprende tutti simultaneamente (e altri ancora). È una caratteristica della lingua cinese (una delle caratteristiche che ne fanno uno straordinario mezzo di poesia) il fatto che ogni parola contenga una molteplicità di risonanze e ogni frase possa essere letta in vari modi. Ma ciò che è in gioco qui è qualcosa di più della flessibilità della lingua: è lo spirito stesso del daoismo che accoglie gli opposti come complementari e tiene insieme letture diverse della stessa cosa. Si consideri, per esempio, questo passo del Zhuangzi, l’altro grande classico del daoismo, all’incirca contemporaneo o di poco posteriore al Laozi:

“Perciò ‘quello’ emerge da ‘questo’ e ‘questo’ dipende da ‘quello’ – che val quanto dire che ‘questo’ e ‘quello’ si generano a vicenda. Dove c’è nascita dev’esserci morte; dove c’è morte dev’esserci nascita. Dove c’è accettabilità dev’esserci inaccettabilità; dove c’è inaccettabilità dev’esserci accettabilità. Dove c’è il riconoscimento del giusto dev’esserci il riconoscimento dello sbagliato; dove c’è il riconoscimento dello sbagliato dev’esserci il riconoscimento del giusto. Perciò il saggio non procede in questo modo, ma illumina tutto nella luce del cielo. Anch’egli riconosce un ‘questo’, ma un ‘questo’ che è anche un ‘quello’, un ‘quello’ che è anche ‘questo’. Il suo ‘quello’ contiene sia un giusto che uno sbagliato. Perciò, di fatto, ha ancora un ‘questo’ e un ‘quello’? O di fatto non ha più un ‘questo’ e un ‘quello’? Lo stato in cui ‘questo’ e ‘quello’ non trovano più il loro opposto è detto il perno della Via.” (Zhuangzi, 2) (nota 5)

Questo libro vuole essere un invito a leggere il Laozi nello spirito “in cui ‘questo’ e ‘quello’ non trovano più il loro opposto”.  Vuole essere una ‘traduzione daoista’ del Laozi, che permetta al lettore di abbracciare diverse risonanze del testo, di tenere insieme interpretazioni contrapposte senza dover necessariamente scegliere, bensì contemplandole come strati di significato che si arricchiscono a vicenda.

(1) Voce del Dictionnaire Ricci de caractères chinois, Instituts Ricci (Parigi-Taipei), Desclée de Brouwer, Parigi, 1999 (mia traduzione semplificata).
(2) Chad Hansen, A Daoist Theory of Chinese Thought, Oxford University Press, Oxford e New York, 1992, p. 99.
(3) Ibid.
(4) Questa frase compare per la prima volta in una presentazione che Korzybski tenne a un convegno della American Mathematical Society a New Orleans nel 1931.
(5) Burton Watson, The Complete Works of Chuang Tzu, Columbia University Press, New York and London, 1969, pp. 39-40.

6 Responses to “Tao Te Ching, cos’è dunque questo Dao?”

  1. Peppe ha detto:

    Dio mio quante pippe mentali!

  2. watts ha detto:

    E’ il secondo commento dello stesso tenore fatto da Peppe agli ultimi due post.
    Spero sinceramente per Peppe che abbia (nel suo bagaglio culturale) qualcosa di meglio delle pippe , a cui sembra molto affezionato!

  3. Alba Giorgetti ha detto:

    Tutto questo fa parte del vecchio sistema uomo dalla coscienza introvertita e dal pensiero oggettivante.
    E’ già in essere la nuova logica unitaria che pone in atto la relazione dialogica intersoggettiva tra coloro che sono simili e distinti quanto alla consapevolezza ed hanno una coscienza universale che consente di riconoscere i segni significativi dell’ultimo salto evolutivo che ha posto nell’esistente la Nuova Umanità.
    Le vetuste religioni o discipline di qualsiasi ordine o grado sono state superate dalla nuova ontologia della Logica Unitaria che comprende risolve e dissolve ogni contradditorietà.
    Non tutti avvertono di essere attraversati dal salto evolutivo, ma molti si trovano a vivere in un mondo in cui non si riconoscono ed in cui non vengono riconosciuti se non attraverso l’incontro con l’Altro da sè che possa indicargli il percorso di ri-conoscimento.

  4. Morfeo ha detto:

    Oddio, dalle pippe mentali all’ontologia della Logica Unitaria!!!
    No so quale sia la verità, ma sono certa che sia molto più semplice!

  5. Federica ha detto:

    Namastè! ho trovato utile questo articolo, forse perchè capita in un momento in cui tutto si è confuso ed io sebbene sia serena, mi sento come quando si va il morto a galla.
    Grazie! Buona vita
    Federica

  6. Fabrizio ha detto:

    Con tutto il rispetto per la passione e la cultura dell’autore, e per Lao Tzu, pietra miliare del Taoismo, ritengo personalmente che il Tao non sia una filosofia e neanche una religione; e qui sta il suo miracolo.
    Quello che continua a stupirmi nelle mie lunghe conversazioni con artisti interiori di discipline taoiste è la totale semplicità e naturalezza di questa via. Solo speriementando a lungo e praticandola con passione riusciremo a riconoscere il nostro immortale dentro di noi e a fondere la sua perla per tornare e risplendere nel Wu chi …
    Il resto sono parole, e le parole possono distrarre dall’obiettivo…

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