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almaas5.jpgA. H. Almaas (pseudonimo di A. Hameed Ali) ha creato il Diamond Approach, un cammino spirituale che integra la psicologia contemporanea con la spiritualità.

Nato in Kuwait nel 1944 e cresciuto in una tradizionale famiglia musulmana, Almaas si è trasferito negli Stati Uniti nel 1963 per studiare Fisica all’Università di Berkeley. Arrivato sul punto di laurearsi, ha abbandonato gli studi perché riteneva che la scienza non offrisse risposte alle domande profonde della vita. Ciononostante, egli conserva un ricordo positivo della sua educazione scientifica, perché grazie a essa la sua mente è diventata “precisa e sperimentale”.

Continuando le sue ricerche nel campo della psicologia, Almaas ha scoperto alla fine il valore di quella che chiama “essenza”, la natura intrinseca dell’essere umano, opposta all’«ego» e alla “personalità”, il complesso delle caratteristiche acquisite attraverso l’esperienza e l’educazione. Questa dinamica è forse la caratteristica principale del Diamond Approach. Almaas insegna dal 1976 e ha creato centri nella San Francisco Bay Area e in Colorado, dove oggi operano circa sessanta, settanta insegnanti. È autore di molti libri, presentati in bibliografia alla fine dell’articolo.

Desideravo intervistare Almaas soprattutto per due ragioni. In primo luogo, per l’accento da lui posto sulla dinamica tra l’«essenza» e la “personalità”, che è un elemento centrale di molti insegnamenti spirituali, i quali sottolineano tutti la necessità di distinguere il proprio essere innato dai propri condizionamenti. Inoltre, perché ho la sensazione che l’epoca presente richieda, in particolar modo, una nuova sintesi degli insegnamenti tradizionali, e il lavoro di Almaas offre un’interessante riformulazione dei concetti della psicologia profonda, del sufismo, del lavoro di Gurdjieff, del buddismo e di altre scuole.

Ho intervistato Almaas nella sua spaziosa e nuovissima casa (l’impresario stava ancora lavorando al giardino) sulle colline di Berkeley, in California. Mi ha fatto l’impressione di una persona tranquilla e concreta, dalla centratura stabile e la mente penetrante. Poiché ho avuto problemi con il registratore, è stato necessario rifare buona parte dell’intervista. A tale inconveniente, Almaas ha reagito con calma e pazienza.

Richard Smoley: Forse potresti cominciare parlandoci del Diamond Approach.

A. H. Almaas: Il Diamond Approach è un insegnamento spirituale, una tecnica per entrare in contatto con la nostra natura spirituale e portarla nella nostra vita. È un lavoro spirituale, nel senso che ha a che fare con quella parte della nostra natura che è al di là del tempo, dei prodotti della vita presente, dei pensieri, le convinzioni, le idee e i concetti su noi stessi e il mondo. Quindi, ha a che fare con il riconoscimento diretto, o la gnosi della nostra consapevolezza, del nostro essere. Quando sono me stesso liberamente e semplicemente, senza cercare di cambiarmi o di essere qualcuno, ma restando semplicemente ciò che sono, chiamiamo tutto questo il riconoscimento della natura autentica. Grazie a questa natura spirituale, la nostra vita diventa autentica.

Il Diamond Approach è un insegnamento sulla natura autentica e il modo con cui entrare in contatto con essa; inoltre, è la tecnica che accompagna a questo insegnamento. La tecnica, si potrebbe dire, consiste in un’indagine socratica, nel senso che si tratta di porre domande, di essere curiosi. Una domanda implica non solo il riconoscimento di non sapere, ma anche la curiosità di conoscere. Per cui, indagare vuol dire in realtà porre domande, cercare di scoprire, essere curiosi della vita, dell’esperienza personale e dell’esperienza in generale, cioè di qualsiasi esperienza. Sono triste, ferito, arrabbiato, contrariato od ho problemi in una relazione: tutto ciò che accade può diventare l’oggetto dell’indagine. Quindi, l’indagine si basa su una curiosità di tipo molto simile a quella spontanea dei bambini.

Ecco perché dico che ha a che fare con l’amore, l’amore e la verità, l’amore della conoscenza. Amo conoscere me stesso, te, il mondo. E amo conoscere nel senso di una conoscenza diretta, vivente, di ciò che esiste. Quindi, il Diamond Approach è un insegnamento sia sull’essere che sulla relazione tra l’essere e la personalità, o quella che viene chiamata l’ego-consapevolezza. Alcune sue parti sono prese dalla teoria delle relazioni con l’oggetto, dalla psicologia del profondo, e vediamo in che modo queste parti si accordano alla ricchezza dell’essere.

L’essere può manifestarsi in molti modi diversi e con molte qualità. Per cui, da questo insegnamento, questo insieme di conoscenze, emerge un tipo di spiritualità che consiste nel coinvolgimento diretto di se stessi, della propria vita e della propria esperienza. Il tuo interesse verso la conoscenza è personale, non è dovuto al fatto che qualcuno ti ha detto che è una buona cosa.

Richard Smoley: Tutto ciò presume qualcosa che sembra molto vero, ma molto problematico. Affermi che ciò che conosciamo siamo noi stessi, ma è abbastanza evidente che non è così. Il fatto stesso che cerchiamo noi stessi, che ci chiediamo chi siamo, dimostra che il nostro punto di partenza è una certa inautenticità dell’essere. Come accade questo? Perché cominciamo da una tale confusione?

A. H. Almaas: Questa è una delle cose che gli studenti affrontano, in quanto fa parte del loro processo. Comprendono di essere molto arrabbiati, esasperati con Dio perché le cose vanno così: “Dove sei stato tutto questo tempo? Se sei così perfetto e meraviglioso, se sei il padrone di tutte le cose, perché la situazione fa tanto schifo?”. È una domanda autentica cui arrivano le persone. E di solito non c’è risposta. So che i vari insegnamenti hanno delle risposte: il buddismo risponde con il karma, i sufi o i cristiani con la volontà di Dio, mentre gli psicologi parlano del condizionamento e delle esperienze infantili, ma quando io stesso mi metto alla ricerca e voglio scoprire perché le cose sono andate così, non trovo un vero motivo.

Non voglio dire che non ce ne sia uno, ma non lo trovo. E tutte queste cose che sento, in realtà, sono favole per spiegare la situazione. Diverse persone trovano diverse spiegazioni sensate, ma da un certo punto di vista si tratta di favole, e io personalmente non ho alcuna favola, perché sento di non capire la situazione. Forse c’è qualcosa da capire, forse no. Sono ancora aperto, sto ancora indagando su questo. Ci sono poi i piccoli fatti accaduti nella vita e che la psicologia usa per spiegare la tua situazione, ma penso che nemmeno questa sia una vera risposta. In che modo queste cose ti sono successe? In che modo esse hanno avuto tali conseguenze? Perché un essere umano non è fatto in modo diverso? Quando poni la domanda in questi termini, nessuno ha davvero una risposta. È come chiedere perché le mele marciscono: semplicemente accade.

È così che vedo la questione. So che potrebbe davvero esserci qualcosa che ignoro, ma mi permetto anche di pensare che forse queste sono domande cui non possiamo rispondere. È la stessa cosa quando qualcuno comincia ad aprirsi, a sperimentare la realtà, a maturare, e la sua vita giunge a compimento. Perché questo accade? Possiamo dare tutte le ragioni che vogliamo: la grazia di Dio, il karma positivo, gli sforzi giusti… In realtà, non so se una di queste è la spiegazione. Quindi, ciò che penso di queste cose è che noi facciamo tutto ciò che possiamo nel modo migliore che la situazione ci permette. Chissà perché è successo?

Richard Smoley: Gran parte del tuo lavoro implica una dinamica tra la personalità e l’essenza, il sé condizionato e l’essere. La personalità sembra qualcosa di falso, ma da ciò che capisco dei tuoi scritti, può rivelare qualcosa di autentico dell’essenza. Come funziona ciò?

A. H. Almaas: Qual è la relazione tra la personalità e l’essenza? Naturalmente, la dicotomia è stata riconosciuta e concettualizzata in molti insegnamenti, per esempio in quelli di Gurdjieff, nei sufi e in molti altri. La mia comprensione è che la personalità e l’essenza non sono separate. Esiste un legame connettivo tra la personalità e l’essenza; uso il concetto di anima per tale legame connettivo. E credo che questo fosse il significato originale di tale concetto, per esempio nel cristianesimo e nell’ebraismo. Questa è la consapevolezza che sperimenta, pensa, risponde, desidera, metabolizza l’esperienza, ricorda e decide. È l’io che è sempre io, indipendentemente dal fatto che sto sperimentando l’essenza o la personalità. Quella è la tua consapevolezza, la tua coscienza, il tuo sentimento, le tue sensazioni, la tua esperienza in quanto totalità. È sempre presente. Ovunque ci sia un’esperienza, quest’ultima fa riferimento a tale consapevolezza.

Ebbene, tale consapevolezza ha molte caratteristiche, una delle quali è il fatto che può sperimentare se stessa attraverso rappresentazioni, mediazioni, strutture mentali: le immagini, i concetti, le convinzioni, le idee che abbiamo sviluppato nella nostra storia. I sufi chiamano questi filtri veli; i buddisti, oscurazioni. Quando guardiamo attraverso di essi, perdiamo l’immediatezza dell’esperienza dell’anima. L’esperienza diventa indiretta. Quando sperimentiamo noi stessi in quel modo, la chiamiamo personalità. Quando l’anima sperimenta se stessa immediatamente, senza la mediazione di concetti, strutture o convinzioni che abbiamo preso dalle esperienze precedenti, riconosce se stessa come una realtà ontologica, un essere, una realtà fondamentale che esiste adesso. E questo lo sperimentiamo come essenza.

Richard Smoley: Come avvicini qualcuno all’essenza?

A. H. Almaas: Con il duro lavoro, certamente. L’impegno continuo e ininterrotto per un lungo periodo. La tecnica non è tanto importante quanto l’atteggiamento, la dedizione, la devozione, la sincerità. Se potessimo elencare le qualità dell’essenza – l’amore, la curiosità, la chiarezza, l’impegno (e ogni essere umano le possiede in qualche misura) – penso che queste ci porteranno all’essenza, perché sono sue manifestazioni. È così che l’essenza incide su di noi e la nostra normale esperienza. Per cui, quando una persona è sinceramente dedita alla pratica, da dove viene tale dedizione? Non dalla personalità, perché quest’ultima è dedita alle sue strutture. La personalità opera per sostenere e perpetuare queste ultime.

Esiste una dedizione che continua a prescindere dalle strutture, anche quando l’ego dice: “No, no, questo non è interessante, non mi piace, è doloroso”. Tuttavia, perseveri. Cosa ti fa andare avanti? Quella dedizione viene da qualcosa che è al di là di quelle strutture. Quindi, se continui nel tuo lavoro, sarà quella stessa dedizione a rivelare la sua fonte, che a quel punto riconosceremo come la volontà-essenza. Se segui fino in fondo l’amore, la devozione, è l’essenza che sta agendo. E in tal modo l’essenza si rivela sempre più, finché a un certo punto la riconosciamo: “Oh sì, quella è la mia vera natura”.

Richard Smoley: Hai menzionato cose come l’amore, la curiosità, la volontà, definendoli attributi dell’essenza. È possibile che essi siano anche veli od oscurazioni dell’essenza?

A. H. Almaas: È una questione complessa, perché anche nella personalità esistono l’amore e la dedizione. Ma c’è una differenza che rende possibile distinguere le due cose. L’impegno della personalità è rigido, privo di intelligenza, fisso; non risponde alla situazione in modo flessibile, fluido. Al contrario, la dedizione dell’essenza, la volontà dell’essenza, può essere sia molto forte, chiara e potente, sia molto vulnerabile, delicata e fluida.

Ma ogni personalità è diversa. La volontà di alcune persone è di acciaio: questa è la volontà della personalità. Altre sono sempre sottomesse: si arrendono continuamente, anche a qualcosa che potrebbe essere pericoloso per loro. Devono reagire con forza e concretezza, ma non lo fanno. Questa è di nuovo rigidità; non siamo di fronte a una qualità autentica.

Naturalmente quelle qualità, come l’amore e la volontà, possono diventare barriere anche quando sono essenziali. Questo è possibile perché, anche se la natura autentica si manifesta come volontà, amore ecc., va al di là di ciò: la natura autentica può anche manifestarsi non-concettualmente. Non puoi chiamarla né amore né volontà; non puoi definirla in nessuno di quei modi. Amore, gioia e compassione sono quelli che chiamo concetti universali. Esistono concetti creati dalla mia vita personale, ma esistono anche concetti universali nel senso che tutta l’umanità li condivide. Quando sperimento l’amore essenziale, sarà lo stesso amore essenziale sperimentato da qualcun altro. Se parlo di compassione, una persona che l’ha sperimentata può capirmi. Ovunque tu vada, in Tibet, in Cina, in India, negli Stati Uniti, in Brasile ecc., la compassione è sempre compassione. Esiste al di là della storia personale. Questo concetto è reale, nel senso che lo scopriamo, non lo inventiamo. Ma la natura autentica va al di là persino di questo.

Quindi, queste qualità possono diventare veli o barriere se una persona dice: “Esse sono l’assoluto”. Nella mia esperienza, quando l’essenza si rivela, fa capire anche che non puoi catturarla. I tuoi concetti diventano più sottili e raffinati. E affinché il processo progredisca, sono in un certo senso necessari. Ma l’essenza rivela sempre che le nozioni che si scoprono, qualunque esse siano, sono temporanee; sono utili all’interno di un contesto, ma esistono contesti più vasti. In realtà, uno dei segni che indicano l’autentica maturazione del processo di una persona è il non essere bloccati in una particolare prospettiva, anche se si tratta di una prospettiva autentica.

Se sei un buddista, la tua prospettiva è quella del vuoto, della compassione e della consapevolezza. Ed è vero, scopri davvero queste cose; non sono le invenzioni di qualcuno. Ma se continui a pensare solo a esse, col tempo ciò limita il processo. Quest’ultimo diventa concettuale e non reale. Allora la gente parla di consapevolezza non-concettuale, ecc. Dopo di ciò, devi abbandonare anche questo, finché arrivi a una realtà più misteriosa.

Richard Smoley: Puoi dire qualcosa della relazione tra Dio e l’essenza?

A. H. Almaas: Non posso parlare obiettivamente. Posso parlare solo della mia esperienza personale. Il concetto di Dio cambia da una religione all’altra, da un insegnamento all’altro, da un individuo all’altro. Uso la parola Dio per indicare l’esperienza dell’universo come un organismo vivente, dinamico. Ed è possibile sperimentare ogni cosa – gli uccelli, gli alberi, la gente, l’aria, il cielo, i pianeti, la galassia ecc. – come una presenza vivente. Non solo conscia e consapevole, ma viva e pulsante, così come sentiamo vivo, pulsante e respirante il nostro corpo. Oltre a ciò, egli possiede un dinamismo, una forza, che passa attraverso metamorfosi costanti e che appare come l’universo che vediamo. Per cui, i cambiamenti sotto i nostri occhi… Le automobili che si muovono, gli uccelli che volano, il sole che gira, gli alberi che crescono: tutto ciò può essere sperimentato come una trasformazione di questa presenza vivente, come una sola cosa indivisa. Io chiamo ciò Dio. E conosco anche altre persone che lo chiamano Dio. Ma non tutti.

Quindi, per me Dio non è una sorta di entità che esiste da qualche parte nel paradiso. È tutto ciò che esiste, che è sperimentabile, sperimentato nella sua natura autentica come consapevolezza viva, dinamica e intelligente, senza necessariamente funzionare allo stesso modo di un essere umano. Anche quando le persone dicono che vedono Dio come l’unità dell’esistenza, cercano di renderlo antropomorfo, nel senso che egli prima pensa, poi agisce; prima decide, poi fa qualcosa. Io non lo vedo così. Lo concepisco più come un’intelligenza naturale che si evolve ed è dinamica. Quando vedo Dio in tal modo, l’essenza per me è il riconoscimento di quell’unità così come si manifesta nell’anima individuale. Quella purezza, quella pura consapevolezza, la definisco l’essenza dell’anima. Ma l’anima non è indipendente da Dio. L’anima è solo una manifestazione inseparabile dalla presenza più grande. E l’essenza sta rivelando gli attributi autentici di Dio, in un certo senso, come gli attributi puri dell’anima.

Richard Smoley: Nel tuo lavoro usi molte idee della contemporanea psicologia del profondo, e mi chiedo se puoi spiegare come le applichi al cammino spirituale.

A. H. Almaas: È una domanda interessante, almeno per me. Questo è un punto sul quale intendo criticare molte tradizioni spirituali. La moderna psicologia del profondo ha moltissime intuizioni, non solo sui dettagli della nostra personalità, ma anche sul modo in cui quest’ultima si è sviluppata. Come acquista la sua struttura? Le antiche tradizioni consideravano le cose in modo più epistemologico, fenomenologico: com’è la personalità nel momento? Ma questo non dice da dove è venuto tutto ciò. Com’è successo? Qual è il processo che l’ha sviluppata con il tempo? Penso che il buddismo ha dato un grande contributo alla comprensione del modo in cui questo processo sta avvenendo adesso, con il concetto dei cinque “skandha” [N.d.E. “Skandhas”, cumuli o aggregati, sono, nella filosofia buddista, categorie usate per indagare l’esperienza. I cinque skandha sono la forma, il sentimento, la percezione, le disposizioni karmiche e la consapevolezza.). Ma esso non dice in che modo ciò che sta avvenendo adesso è cominciato in realtà molti anni fa. E qual è la relazione?

Penso che la psicologia del profondo ci dia questa conoscenza. Ed è qualcosa di nuovo: non è mai successo prima nelle tradizioni spirituali, mai. Penso che Freud ha aperto la strada, Jung e altre persone vi hanno contribuito, e ancora oggi questa conoscenza sta evolvendosi. In un certo senso, siamo ancora nelle sue fasi iniziali. Non è necessariamente una conoscenza assoluta – è una scienza in via di sviluppo – ma possiede molte idee e intuizioni sul modo con cui la personalità si forma, con una grandissima quantità di dettagli. Per cui, nel mio lavoro ho portato quella conoscenza di tali dettagli, e li ho visti interagire con le manifestazioni della natura autentica.

Quindi, quando sorge la volontà essenziale, per esempio, essa porta con sé determinazione, impegno e costanza. Ho riconosciuto che questo era intimamente collegato a problemi psicologici come quelli di castrazione, problemi che riguardano il modo in cui la volontà di un individuo è stata indebolita dal padre, la madre o le circostanze, originando così ferite profonde che la persona non vuole guarire e preferisce reprimere. Reprimendo la ferita profonda, la persona si dimentica in che modo la volontà è stata indebolita, quindi ora quella qualità essenziale non è più disponibile per lui.

Osservare queste realtà psicologiche – la relazione di una persona con l’ambiente, il padre o la madre, la situazione della propria vita, e come tutto ciò ha influenzato le proprie esperienze, creando ferite e determinate convinzioni – lo studio di tutto ciò ci dirà in che modo siamo stati privati di qualcosa di fondamentale come la volontà. Se riusciamo a sperimentare ciò, possiamo fare esperienza di quello che è stato amputato. E questa è quella che definisco una deficienza o un buco, cioè l’assenza di una qualità essenziale. Grazie a questa esperienza, la qualità sorge da sé. E quando senti quella volontà, dopo un po’, puoi esplorarla e riconoscerla come una manifestazione dello spirito.

Richard Smoley: Nei tuoi libri affermi che alla contemporanea psicologia del profondo manca questa nozione dell’essenza. Uno psicologo che parla di qualcosa del genere è Jung. Ma ho la sensazione che non ti ispiri tanto a Jung, quanto ad altri psicologi. Mi chiedo cosa pensi del lavoro di Jung in generale, e qual è il rapporto di quest’ultimo con l’essenza.

A. H. Almaas: Il mio giudizio sul lavoro di Jung è che esso è più completo di quello di Freud o del tradizionale movimento psicoanalitico, perché vi è inclusa la dimensione spirituale. Jung non ha usato il concetto di essenza, ma ha impiegato altri concetti, come l’archetipo del Sé. Quindi, egli ha introdotto la dimensione spirituale creando quella che è fondamentalmente una psicologia spirituale. Comunque, non utilizzo granché Jung. La ragione è che il suo modo di considerare lo spirito è diverso dal modo in cui io lo sperimento. Poiché è diverso, non posso usare la sua psicologia; quest’ultima è inestricabilmente collegata alla sua concettualizzazioni del Sé, degli archetipi, e al modo in cui considera l’essere.

Richard Smoley: In cosa differisci?

A. H. Almaas: Ecco una questione controversa, perché esistono varie interpretazioni di Jung. Diversi junghiani hanno diverse interpretazioni su di lui. Io ho letto Jung nello stesso periodo in cui leggevo Freud e altri psicologi, e non mi sono trovato molto in sintonia con ciò che diceva. Il risultato è stato che non ho provato molto interesse, quindi non ne so granché. Ma da ciò che so, e dalle discussioni con amici che conoscono meglio Jung, egli si basa molto sui sogni, per esempio, sul simbolismo dei sogni. Faceva molto affidamento – almeno i suoi seguaci credono che facesse molto affidamento – sul mito, il folklore, le immagini e le storie correlate. Quindi, esistono molte figure mitologiche, e ci si basa anche sugli archetipi. Ebbene, che altro è l’archetipo se non l’adattamento delle Idee platoniche? L’archetipo è una sorta di energia, una specie di fonte che manifesta un certo contenuto, una determinata storia, una particolare forza. Ma non è mai qualcosa di molto specifico, molto definito, che puoi guardarlo e dire: “Ecco, è questo”.

Per me, a Jung mancano una certa precisione, definizione e immediatezza. La mia opinione è che l’essere ha una precisione e un’immediatezza che non hanno nulla a che vedere con le storie o i racconti mitologici. In realtà, il Diamond Approach opera per raggiungere la liberazione dalle storie, i miti, i simboli. Se sorgono dei simboli, bene. Lavoriamo con i sogni e naturalmente con il passato di una persona, ma lavoriamo con ciò come con dei contenuti mentali che al massimo portano al di là di se stessi. A quel punto, si fa davvero l’esperienza di qualcosa di chiaro e definito, che è possibile descrivere in modo preciso. Un’altra persona potrebbe non capirlo, ma si tratta di qualcosa che può essere descritto dettagliatamente. L’essenza per me viene sperimentata come immediatezza, in questo stesso istante. Non sto dicendo che il lavoro di Jung non la includa; sono sicuro che in qualche libro ne fa menzione. Però questo non è il punto principale, non è la fragranza del lavoro di Jung. Pertanto, apprezzo l’opera di Jung, ma vedo che egli usa una prospettiva diversa che mi impedisce di adoperare il suo lavoro.

L’altra cosa importante è che Jung vedeva se stesso come uno psicologo. È vero che il suo approccio divenne spirituale, ma egli restò uno psicologo. E i terapisti junghiani fanno fondamentalmente psicoterapia. Io, invece, non mi vedo come uno psicologo. Mi vedo come un insegnante o un esploratore spirituale. E la psicologia è solo una delle cose che trovo utili. Concepisco il mio lavoro come una conoscenza spirituale che in qualche modo si ricollega alla psicologia e alle intuizioni di quest’ultima; ciò dà al mio lavoro una fragranza totalmente diversa, e il rapporto tra insegnante e studente per me è diverso da quello tra gli analisti junghiani e i loro pazienti.

Richard Smoley: Qual è la differenza, secondo te?

A. H. Almaas: Beh, per esempio, noi non abbiamo sessioni private quando lavoriamo. Usiamo situazioni di gruppo, e impieghiamo l’azione in vari modi. Inoltre, l’insegnante non si limita a capire la mente dello studente, ma è anche una fonte e una manifestazione dell’essenza e delle qualità dell’essenza. L’insegnante deve essere una personificazione di tali qualità. Esse devono esistere non solo nei rapporti e nella vita dell’insegnante, ma pure nei suoi discorsi. Infatti, quando egli insegna, non si limita a dire parole, ma emana anche la qualità. Ecco quello che fa un insegnante spirituale. Ebbene, uno psicoterapeuta non direbbe che questo è il suo mestiere. Di fatto, gli psicoterapeuti sono molto diffidenti su questo genere di cose; gli ricordano l’ipnosi, la suggestione, l’influsso.

Dunque, una differenza tra il Diamond Approach e il lavoro junghiano è la differenza tra il lavoro spirituale e la psicoterapia. Un’altra differenza sta nella concezione della spiritualità. Ma la questione non è così semplice, perché molti junghiani si considerano insegnanti spirituali.

Richard Smoley: E alcuni junghiani considerano una religione la psicologia junghiana.

A. H. Almaas: Ho delle conversazioni con alcuni amici che seguono la psicologia junghiana, e da esse risulta chiaramente che esistono diverse interpretazioni di Jung. Quindi, io non affermo di conoscere il vero Jung. Ecco perché quello che sto dicendo andrebbe preso “cum grano salis”. Ma la sensazione che mi danno gli scritti suoi e di molti junghiani è che egli abbia un’altra fragranza, un diverso orientamento. Per me, esso mi allontana dall’immediatezza dell’esperienza dell’essenza. Per altre persone, potrebbe essere un modo di connettersi alla loro essenza.

Richard Smoley: Hai parlato, in particolare, del lavoro di gruppo. Cosa fa un gruppo che un individuo non può fare? Quali sono i suoi usi e scopi specifici?

A. H. Almaas: Questa è una cosa che i miei studenti chiedono frequentemente. Una sessione individuale, quella che chiamiamo una sessione di insegnamento privato, dà qualcosa che il gruppo non dà, e viceversa. Nella sessione privata sono possibili l’intimità, la vulnerabilità e l’apertura, perché c’è una relazione a tu per tu in cui la fiducia diventa più profonda. Inoltre, l’attenzione viene portata sulla persona autentica, la sua psiche e la sua vita. Questo non può accadere in un gruppo.

In un gruppo – una piccola situazione di gruppo, da dodici a diciotto persone – l’insegnante lavora con gli studenti uno a uno, mentre gli altri osservano. Questi ultimi non solo sostengono il processo attraversato dallo studente e dall’insegnante, ma in più imparano, osservando il modo di lavorare dell’insegnante e il processo dello studente. Possono interagire con esso, reagirvi, e porre domande all’insegnante e agli altri studenti. Anche l’insegnante può prendere spunto da determinate situazioni. Per esempio, come risultato di una certa indagine, uno studente sta provando la sensazione di essere al di là del tempo.

L’insegnante può prendere ciò come punto di partenza per una discussione sul rapporto tra l’essere e l’eternità. Può anche soffermarsi su questo punto per dieci o quindici minuti, creando una discussione in tutto il gruppo sulle esperienze di ognuno e il loro significato, cosa che non può avvenire in una sessione privata. Quindi, nel gruppo gli studenti imparano gli uni dagli altri. E naturalmente esistono esercizi che vengono fatti in gruppo, esercizi interpersonali di confronto ed esplorazione. La rimozione dei conflitti interpersonali è in sé un ottimo modo di lavorare sui propri pregiudizi e le proprie fissazioni.

Poi, ovviamente, c’è quello che chiamiamo il gruppo grande, che facciamo nei weekend. Questo è il momento in cui l’insegnante ha l’opportunità di fare ciò che in alcune tradizioni viene chiamato il conferimento del potere, l’iniziazione o la trasmissione diretta: in essa l’insegnante introduce l’essere, o una qualità dell’essere, sia verbalmente che energeticamente, fornendo le conoscenze necessarie affinché gli studenti possano osservare la propria situazione e la loro relazione con esso. La sessione privata non consente ciò. E quando c’è un gruppo, quello che l’insegnante tira fuori dipende da ciò di cui il gruppo ha bisogno. Per cui, se il bisogno è più grande, l’insegnante (se è aperto ed evoluto) riuscirà a venirgli incontro in modo più profondo.

Richard Smoley: Considerando questi argomenti da un punto di vista più generale, la società non sempre favorisce o sostiene un lavoro del genere. In che modo questo lavoro può essere usato per migliorare la società? Oppure, innanzitutto, è utile considerare le cose da questo punto di vista?

A. H. Almaas: Penso che sia utile. La mia comprensione personale è che il lavoro non serve solo a se stessi; è utile anche alla società e all’umanità in generale. Se consideri il sistema sufi, per esempio, molti ordini sufi rifiutano di lavorare sull’individuo. Pensano che il lavoro sia finalizzato all’evoluzione dell’umanità. Che una persona sia illuminata o meno, non è importante tanto quanto l’evoluzione dell’intera razza. La concezione corrispondente nel buddismo è la liberazione di tutti gli esseri senzienti.

Sento che quando sto lavorando su me stesso, sto beneficiando me e gli altri, e quest’ultima è la ragione per cui lavoro su me stesso. Più profonda è l’esperienza della mia natura spirituale, più essa diventa un evento naturale e spontaneo, un flusso, in termini di esperienza, azione e comprensione. Più sei in contatto con la tua natura essenziale, il tuo spirito, più il tuo cuore è aperto. E più il cuore si apre, più siamo consapevoli dell’altra persona, in contatto con le sofferenze, ferite e bisogni, e più proveremo un desiderio naturale di fare ciò che possiamo.

Questa è una qualità spirituale che abbiamo tutti. Infatti, a un livello profondo siamo collegati, siamo una cosa sola, in un certo senso. Quindi, dopo un po’, io ti starò aiutando, ma nel fare questo starò aiutando me stesso. A un certo livello esistono due persone che si stanno aiutando tra loro; a un livello più profondo non ci sono due persone, ma una sola entità. Io vedo l’amore e la compassione come espressioni dell’unità dell’essere. Quando sperimentiamo questa unità dell’essere come individui separati, la sperimentiamo come compassione e amore.

Penso anche che le persone che lavorano su di sé contribuiscono alla società con il loro essere autentiche, reali, non necessariamente con ciò che danno palesemente alla società. Una persona potrebbe diventare più spirituale, realizzata, compassionevole, ed essere palesemente altruista e generosa, anche materialmente, in termini di tempo e di attenzione. Oltre a ciò, il contributo avviene attraverso la qualità dell’azione, dell’essere, delle relazioni. Se mi relaziono a te con integrità, rispettando la tua e la mia integrità, sto contribuendo a me stesso e a te nello stesso tempo. Sto contribuendo alla natura autentica in generale. Per esempio, se interagisco con l’impresario della nostra casa con genuinità, autenticità e partecipazione, e non perché è una buona cosa, ma perché è naturale: questo è un contributo alla società.

Ma poi penso che tutti gli insegnamenti spirituali danno all’umanità un’immagine, un’immagine di ciò che è un essere umano, ciò che può essere un essere umano, ciò che può essere una vita umana. E penso che una cosa che un insegnamento, un insegnante o uno studente possono dare è un’immagine della società. Infatti, da un certo punto di vista la società ha perso la nozione di ciò che è un essere umano. La gente interagisce attraverso i sistemi politici ed economici, attraverso l’interesse personale; la componente spirituale non sempre è riconosciuta o compresa. Quindi, penso che una persona con una certa comprensione della dimensione spirituale può dare un contributo in quanto è una personificazione, un esempio; egli può essere per la gente una sorta di immagine-guida.

Richard Smoley: Secondo te, cosa sta succedendo riguardo la crescita spirituale, in generale? In questo momento esiste un enorme interesse verso di essa. Vedi una direzione in ciò, e pensi che sia possibile utilizzare quello che sta emergendo?

A. H. Almaas: Non so se sono in grado di rispondere a questa domanda. Quando cerco di pensare al mio lavoro nel contesto dell’epoca presente, cercando di porlo in prospettiva storica, comprendo che in occidente (inclusi gli Stati Uniti) sta tornando alla luce qualcosa che è già esistito, ma che era divenuto nascosto: una genuina tradizione spirituale di sapore occidentale, adatta alla situazione e alle aspirazioni degli occidentali.

Essa è esistita davvero. Sto parlando di persone come Socrate, Platone, i neoplatonici, Plotino, Filone; parlo dei cabalisti, di Sant’Agostino, di S. Francesco di Assisi; dei sufi. Vedo tutti costoro come una tradizione continua che in determinate epoche è stata più pura ed evidente che in altre. Dopo l’avvento della rivoluzione industriale e di quella scientifica, tale tradizione si è fatta sotterranea, mentre ha prevalso la corrente razionale, scientifica e logica. Ebbene, anche quest’ultima fa parte del patrimonio spirituale dell’occidente, però ha divorziato dalla tradizione spirituale. Ma penso che la componente spirituale sia ancora presente, e stia riemergendo a poco a poco.

Questo riaffioramento lo vedo, in parte, nella psicologia occidentale del profondo. Considero Freud e Jung, per esempio, un tentativo (non da parte di quegli individui, ma della tradizione stessa) di trovare nuove forme, appropriate al nostro tempo. Quindi, penso che la spiritualità e la psicologia che vediamo oggi fanno parte di un processo storico che con il tempo darà vita a una tradizione spirituale occidentale genuina, piena e più completa, nella quale la psicologia e la spiritualità occidentali diventeranno una cosa sola. Considero il mio lavoro un contributo a ciò, esattamente come quello di Jung.

Naturalmente, esistono tutte le altre tradizioni:il buddismo, il taoismo, il sufismo. Penso che anche tutte queste cose saranno presenti, ma credo che la componente principale che affiorerà con il tempo sarà indigena. Potrebbe avvenire un’integrazione di queste diverse tradizioni, come la tibetana e l’indiana, ma non penso che sarà operata dai tibetani o dagli indiani, bensì dagli occidentali, che hanno imparato queste tradizioni e daranno loro nuove forme e linguaggi.

Oltre a ciò, penso che si terrà conto del nostro patrimonio spirituale, incluso quello scientifico e tecnologico. Ovviamente, ci saranno vie, individui e movimenti diversi. Ma credo che sia qualcosa che sta già avvenendo.

Ciò di cui la maggior parte delle persone non è consapevole è che esiste un’autentica corrente spirituale occidentale, con le sue caratteristiche e la sua fragranza. Per esempio, in occidente non siamo interessati alla liberazione, quindi non ci reincarneremo. Questo è un fenomeno orientale, riguarda la concezione orientale della vita. Qui, in occidente, vogliamo una spiritualità che renda la nostra vita autentica e reale. Non vogliamo abbandonare la vita; desideriamo viverla in modo autentico, reale e genuino.

Richard Smoley: E tuttavia le ultime parole di Socrate furono: “Devo un gallo ad Asclepio”, sottintendendo che la morte era una cura dalla malattia della vita. Ed esiste un’affermazione di Platone: “Il corpo è una tomba”. Per cui, in occidente esiste anche questo aspetto.

A. H. Almaas: Lo vediamo anche nel cristianesimo e nell’Islam, per esempio, dove esiste un impulso verso la vita, ma l’aldilà continua a essere preferito. È nell’aldilà che ti realizzi. I mistici cristiani sostengono che l’unione finale accade solo dopo la morte. Ciononostante, penso che in occidente l’accento sia più su questa esistenza, sull’individuo, sulla vita personale. C’è più enfasi su queste cose sia nelle tradizioni spirituali sia nella società dell’occidente. Si desidera il successo e si vuole essere in grado di provvedere a sé e agli altri.

Tutto questo può essere sembrare molto materialista e privo di spiritualità, ma potrebbe anche diventare molto spirituale, giusto? In ciò c’è qualcosa che rivela una verità che in oriente non si trova: è possibile essere individui reali. Hai la tua vita personale, sei sposato, lavori e hai i tuoi interessi, ma sei autentico, reale ed essenziale. Fai affari, ma li fai con equità, onestà, rispetto, compassione e consapevolezza. Una persona non deve necessariamente diventare un monaco o una monaca per avere un’autentica vita spirituale. Penso che questo possa avvenire con più facilità in occidente piuttosto che in oriente.

Non sto dicendo che in oriente questo aspetto non esiste; solo, non è molto accentuato. E credo che qui sta la differenza tra oriente e occidente. Nella tradizione orientale, si pone l’accento su queste domande: cos’è la natura autentica? Cos’è la trascendenza? Se consideri la tradizione cristiana, la cabala o i sufi, per esempio, ci si chiede che cos’è l’essere umano in relazione a che cosa. È vero che l’essere umano è importante, ma cos’è un essere umano? Ecco perché, per esempio, nella cabala abbiamo l’Albero della Vita, che manifesta le diverse qualità dell’autentico essere umano spirituale.

Penso che l’oriente ha reso molto più profonda la nostra comprensione della natura trascendente, ma l’occidente ha aiutato a capire la nostra relazione con essa. Come viviamo in questo mondo? In che modo ci relazioniamo alla vita sulla Terra? Questo ci riporta alla situazione presente, dove dobbiamo affrontare temi come l’ambiente e la Terra, le relazioni tra le persone e gli abusi di potere. Penso che la spiritualità dovrà affrontare tutte queste cose. Essa non è qualcosa tipo: “Lavorerò su me stesso e raggiungerò la liberazione”. No, io voglio raggiungere la liberazione per vivere al meglio delle mie possibilità e beneficiare le altre persone. E forse, quando muoiono, tutti tornano indietro. Non lo so. Io, personalmente, non so se la gente fa ritorno o meno; questo non è qualcosa che conosco per esperienza.

Richard Smoley: Da dove consigli di cominciare un’autentica ricerca spirituale?

A. H. Almaas: Naturalmente, tale questione è affrontata da molti insegnamenti e molti testi. La mia opinione personale, ovviamente legata al mio lavoro, a ciò che insegno, non è di mettersi alla ricerca della natura assoluta, ma di considerare quella che è la verità della mia esperienza in questo momento. I buddisti dicono: “Scopri se esiste un sé assoluto”. Bene, questa è una buona tecnica, ma la mia è chiedersi: “Vediamo quale è la mia esperienza in questo istante”.

A un certo punto della mia indagine sorge la questione della volontà assoluta, ma all’inizio, quando ho appena avuto un litigio con mia moglie, essa non è molto importante. E anche se lo fosse, mi sarebbe difficile comprenderla; sembrerebbe qualcosa di intellettuale. Tuttavia, posso affrontare il modo in cui mi sento con mia moglie. Perché mi arrabbio con lei? Come posso affrontare la situazione in modo reale, arrecando il meno danno possibile a entrambi? Se lo faccio, ciò produrrà qualità spirituali e a un certo punto si manifesterà l’altruismo, così come diceva il Buddha.

Quindi, il mio consiglio è cercare di essere autentici nelle esperienze personali, cercare di investigare, esplorare, svelare, comprendere e trasformare le proprie quotidiane esperienze, interazioni, stati d’animo e relazioni con l’ambiente. E la mia esperienza è che quando agisco così, ciò provoca una trasformazione. Ma naturalmente questo richiede moltissima sincerità e dedizione. Inoltre, occorrerà che una persona possa permettersi il lusso di esplorare ciò, perché, come sappiamo, oggi moltissime persone non hanno nemmeno il tempo per guadagnare abbastanza per sopravvivere. Quindi, tale questione si intreccia con il sistema politico e sociale. Ma penso che ciò che un individuo può fare è indagare davvero la sua vita, indagare nel senso di chiedersi cosa è reale e cosa no, cosa è autentico e cosa no. E indagare le mie convinzioni, idee e atteggiamenti, per vedere se sono validi o no.

Questa è una caratteristica del nostro cuore: il cuore ama davvero conoscere la verità. Tutti lo sanno. Anche quando ti limiti a indagare e scopri qualcosa per te stesso, c’è gioia, soddisfazione. Al cuore piace veramente! Questo è caratteristico di noi esseri umani. Talvolta, per le persone è doloroso comprendere qualcosa. Ma poiché la comprendono, è vera e bella. Per cui, questa è la sfida: seguire la qualità del cuore, laddove il cuore ama sperimentare direttamente e autenticamente. E per aprire il cuore, io uso l’indagine, l’esplorazione; altre persone possono usare altre cose.

Inizia nel 2005 una scuola Diamond Approach in Italia, il percorso creato da Almaas. Un’importante occasione per i ricercatori del vero che desiderino entrare in un percorso continuativo di conoscenza della propria anima, che passa dalle qualità essenziali per aprirsi all’assoluto.

Per maggiori informazioni su libri e articoli di Almaas, http://www.ahalmaas.com

Il sito della scuola Ridhwan: www.ridhwan.org

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Almaas. Diamond Heart Book 2 The Freedom to Be. Shambhala. 2000. ISBN: 0936713046

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Almaas. Facets of Unity: The Enneagram of Holy Ideas. Diamond Books. 2000. ISBN: 0936713143

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